Due righe sulla “normalità”

Stamattina al parco mi sono seduto ai piedi di un albero. Gea e Sirius mi si sono accovacciati accanto, avrebbero preferito che li liberassi per andare a zonzo per un po’. Non l’ho fatto, ho ancora paura che si imbattano in qualche schifezza e, nonostante la museruola, si ammalino di nuovo. Non ce lo possiamo permettere da nessun punto di vista. E da lì, dai piedi di un albero, mi sono chiesto quanta “normalità” pre virus stia tornando. Ho ascoltato il ritmo del traffico che è aumentato, l’aria che sta peggiorando tornando alla normalità. Ho fatto la tara alla mia ansia legata ai soldi, che mancano sempre più, al lavoro che non si sa se e quando riprenderà. Al “cosa fare”, ancora una volta. Ho aperto una delle poche app che ho ancora sul telefono e mi sono riletto la mail che ho ricevuto pochi giorni fa da un amico. Riflettevamo a distanza su questa fase 2. Scrive:

[…] Questa è la normalità che vogliono Lù, da decenni ormai. E preferirei non averci più niente a che fare. Questa è la mia verità. Quale normalità vogliono veramente, cosa non sarà più come prima? Si tenessero i lavori, io voglio i soldi per vivere, si tengano la virtualità, gli acquisti e le vendite on line, si tengano le riunioni e gli incontri davanti agli schermi, io voglio i corpi e le strade e i parchi. Quanto ne sanno di cosa può un corpo? Di cosa ci dovremmo accontentare, di guardarci attraverso la telecamera? Ti ricordi i racconti di Ballard? Ti ricordi quanto lavoro fisico, quanto sudore e quante risate nelle sale prove per un’ora di spettacolo? E ora che dovremmo fare, da soli, separati, on line? I muri non mi sono mai piaciuti, anche quelli di casa, nel momento in cui da riparo diventano prigione. Andrei volentieri in pensione, un nuovo status, legato non tanto all’età, non siamo così vecchi, ma al grado di maceramento di coglioni. Questo modello di società, di vita, non mi può estrarre più niente, sono esausto. Ma lo so che lo faranno comunque, come in Matrix. Mi rifiuto d’essere utile a questa “normalità” in qualche modo. Sinde jisseru tutti affangulu. Hai letto la lettera di Eugenio Barba: Mi domando se non sia salutare per il teatro che la pandemia sfoltisca le piante incapaci di sopravvivere. E poi ancora: Ho una sola certezza: il futuro del teatro non è la tecnologia, ma l’incontro di due individui feriti, solitari, ribelli. L’abbraccio di un’energia attiva e un’energia ricettiva.

Ecco, io voglio sopravvivere e voglio anche vivere. Quindi c’è da trovare un livello diverso di approccio, di modo di vivere. Il teatro, la vita, è un incontro fra corpi. “Feriti, ribelli, solitari”. Come eravamo e come siamo ancora […]

Chiudo il telefono e mi godo il sole. “Il grado di maceramento di coglioni”. Le auto si fermano al rosso oltre la cortina di alberi e ripartono. Si fermano un poco e poi ripartono. Preferivo il silenzio dei giorni scorsi. Quella sospensione. Qua la loro “normalità” sta tornando, amico mio, e sembra sempre più una prigione da cui evadere.

La lettera di Eugenio Barba la trovate a questo link

ps: ho chiesto al mio amico il permesso di pubblicare lo stralcio della sua lettera, grazie brò

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