Ho letto Zagreb in meno di due ore. Due intense immersioni nell’orrore evocato dalla scrittura asciutta ed essenziale di Arturo Robertazzi. L’ho letto all’aria aperta, in due giorni distinti, ho diluito nel tempo e nello spazio intorno a me l’intensità delle immagini, per non stramazzare a terra come un sacco svuotato. Non ci sono fronzoli, né espedienti narrativi ad alleggerire la tensione, non c’è colpo di scena risolutore, non c’è niente che renda simpatico un dettaglio, un personaggio, non c’è niente di bello in questa storia, per un semplice motivo: perché la guerra è sporca, è una ferita piena di pus, e puzza terribilmente.
E a tutto questo si accede già dalle prime righe: “Quel mattino era un bel mattino, facemmo fuori quattro persone.” Poche parole che ci fanno precipitare nel teatro di una guerra che evoca altre guerre, compresa quella che ha lacerato l’ex Jugoslavia. Così simile alle tante che ci sono state e sono ancora in corso.
Zagreb non è una lettura che pacifica, non è consolatoria ed è giusto che sia così. Ha il pregio di evocare l’orrore.
Ho provato far entrare in risonanza il romanzo con il monologo finale del colonnello Kurtz di Apocalypse Now:
“E’ impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sannno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna farsi amico l’orrore. Orrore. Terrore morale e orrore sono i tuoi amici, ma se non lo sono essi sono nemici da temere. Sono veri nemici.”
Il protagonista di Zagreb è un dispensatore di orrore: si occupa dei prigionieri, assiste e contribuiscce alla loro disumanizzazione. La massa dei prigionieri è per lui “un’unica Bestia terrorizzata”, Il terrore morale e l’orrore sono suoi amici.
Il suo arruolamento fra le file della Grande Nazione è avvenuto per reazione: subisce l’orrore, diventa un dispensatore di morte che “uccide senza emozione, senza passione, senza discernimento” (dal monologo di Kurtz) perfettamente inserito in un meccanismo di trasmissione ed esecuzione di ordini semplici e spietati.
Robertazzi in Zagreb preme molto sulla distinzione ossessiva del Noi Vs Loro, l’intera guerra è basata su questo e non ha importanza se “loro” vuol dire la mia fidanzata, il mio migliore amico, il mio vicino. Loro sono i nemici, loro adesso sono più deboli e bisogna approfittarne. Ora bisogna farli fuori e non c’è tempo o spazio per altro. Per niente altro. Lentamente, soprattutto grazie a un incontro inaspettato, il protagonista comincia a non vedere più una massa indistinta ma corpi sofferenti.
Compie delle scelte e giudica le proprie azioni e quelle dei propri compagni fino ad arrivare a un grado di consapevolezza tale da dire: “la realtà tornò faticosamente a prendere forma. E fu allora che vidi per la prima volta la muffa che decorava ogni angolo del corridoio, (…) il sangue incrostato alle pareti (…) Per la prima volta tutto arrivò chiaro ai miei occhi. La guerra. L’orrore. La Base.” Sceglie di non uccidere più e la presa di coscienza è una condanna, implica il tradimento, la perdita dell’identità.
Il romanzo si chiude con lo scoppio di una bomba sulla Base, sulla fabbrica trasformata in lager, e il protagonista si sveglia fra i calcinacci e i corpi dei compagni. E’ un sopravvissuto e questo nuovo status basta forse per ricominciare, per testimoniare, per dire con Kurtz: “E voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo, non voglio mai dimenticarlo.”
qui l’intervista ad Arturo Robertazzi fatta da Angelo Ricci e nella sezione Zagreb la storia dietro i materiali, raccolti durante la stesura del romanzo, sul conflitto nella ex_Jugoslavia e messi a disposizione in rete.