Camminavo e camminavo e
mi dicevo
se non voglio morire non morirò
Un passo e poi
Un passo ancora più in là
Sempre e ancora
Uno
Camminavo e camminavo e
mi dicevo
se non voglio morire non morirò
Un passo e poi
Un passo ancora più in là
Sempre e ancora
Uno
Poco meno di un mese fa ho ricevuto un’email da Lou Palanca 3, era indirizzata a un gruppo di narratrici, narratori, intellettuali, artiste e artisti calabresi. Ci invitava a sostenere pubblicamente i gestori dell’agriturismo ‘A Lanterna di Monasterace (RC) che hanno subito sette attentati in sette anni, l’ultimo poco tempo fa.
Di seguito trovate il racconto che ho scritto e che dedico a chi resiste in Calabria, con ogni mezzo necessario.
Buona lettura.
L’impressione che ho è che le città inizino ad assomigliarsi un po’ tutte, a partire dalle stazioni ferroviarie. Sarà forse perché una volta scesi dal treno ci si ritrova davanti bar, negozi e librerie che fanno parte di catene commerciali. Stessi marchi, stesse vetrine, stessi prodotti un po’ ovunque.
La tendenza è verso un modello commerciale che rende i centri delle città interscambiabili tra loro, nella sostanza.
La barba invecchia
libera folta omogenea
spunta spinge cresce
disegna continenti dai colori cangianti
il nero nel grigio si tramuta nel bianco
continenti in contatto, nessuna frontiera
sulla faccia ho una mappa
paesi interi
etnie, lingue culture
la barba fa del mio volto
un mondo antico.
In fase di editing è normale – credo auspicabile – che alcune parti di un testo vengano tagliate via o riscritte.
Anche per il Diario di zona è andata così, la riscrittura è stata una fatica e alcune cose le ho buttate via senza problemi. Altre invece le ho tenute da parte, il motivo è semplice: mi piacevano e continuano a piacermi
Un mese fa circa ho buttato giù qualche appunto su Le antiche vie di Robert Macfarlane, il testo è stato pubblicato sul sito Alpinismo Molotov. Lo ripubblico quassù così da tenere insieme un po’ di tracce. Buona lettura.
C’è chi vuole il ponte sullo stretto di Messina,
c’è chi spara in una chiesa
c’è chi va in piazza per la famiglia tradizionale
Ciò che segue è un omaggio all’attore Leo Modonnét – e alla maschera di Scaramouche – le cui gesta sono narrate ne L’Armata dei sonnambuli. Ogni somiglianza a fatti e/o persone è da ritenersi casuale, per quanto la situazione teatrale italiana renda verosimile e plausibile ciò che è qui narrato. Buona lettura.
Ci sono testi che per essere compresi necessitano di diverse letture, almeno per me è così. A volte devo leggerli a voce alta per afferrarne il senso.
Ci sono però anche testi che restano sordi a molteplici letture. Testi di latta.
Per lo più sono testi che pretendono di “comunicare” e – magari – di farlo anche senza nessuna implicazione ideologica. Si presentano come testi “tecnici”, neutri.
Sono i più buffi e – spesso – i più pericolosi.
Si va avanti,
a piccoli passi nella neve.
Il teatro è un deserto bianco,
qui si è soli.
Il nostro viaggio d’inverno continua.
Lacrime ghiacciate, ci cadono di dosso.
Con passo calmo e deciso il Diario di zona continua il suo cammino. Di seguito un po’ di tracce:
Pochi giorni fa è stata pubblicata una bella recensione su Doppiozero scritta da Enrico Manera, il titolo è Dai tombini di Torino.
Su Giap è apparsa una recensione del Diario di zona che trovate a questo link e un commento ai primi due UNO della collana Quinto Tipo.
Calendario delle prossime presentazioni:
Passi.
Passi verso cosa?
Soffia un vento gelido
fra le colline
soffia e rimbalza sulle rocce…
Ci sono spettacoli che riescono a instillare un congegno a tempo nell’immaginazione degli spettatori e, a distanza di giorni, quel senso “ottuso” (come lo definì Roland Barthes) che è li nascosto, a volte anche all’insaputa dell’autore, esplode all’improvviso.
Ore passate sul pavimento
con gli occhi fissi in su e
le braccia che annaspano
ora dopo ora.
Come una tartaruga in un gioco crudele.
Il tempo è un bambino che gioca
ti mette a pancia in su
sul dorso degli anni
e il freddo delle piastrelle blocca il respiro
e niente è più.
Sono passati due mesi dalla pubblicazione del libro e le prime (belle) recensioni non si sono fatte attendere, le trovate di seguito:
La farmacia è praticamente vuota, c’è solo un cliente e nel momento stesso in cui le porte a vetri si aprono per lasciarmi passare la farmacista – che fino a un momento fa stava appoggiata alla scaffalatura – si avvicina alla seconda postazione libera accogliendomi con un sorriso.
Il Diario di zona è nato pedalando e camminando per le vie di Torino ed è stato pubblicato, nella sua prima forma, in ‘pagine’ sul blog Satyrikon.
Di strada ora ne ha fatta anche il testo: il 19 Novembre è stato pubblicato, per la casa editrice Alegre, all’interno della collana “Quinto tipo” diretta da Wu Ming 1.
In questi anni ho scritto un po’ di riflessioni sul teatro e le ho pubblicate sul sito Satyrikon.org non qui.
Periodicamente mi allontano dal Teatro per poi tornare in modi diversi, uno di questi è la scrittura. Ho scritto sul teatro approfittando dell’occasione che mi hanno dato alcuni spettacoli che, in un modo o nell’altro, si sono staccati dalla massa di “tutti gli spettacoli che ho visto/ascoltato negli ultimi tre anni”.
Sono pochi ma per fortuna ci sono stati.
Di seguito trovate i nomi e i relativi link ai post su Satyrikon:
APPUNTI SU “DOPO LA BATTAGLIA” DI PIPPO DELBONO
LE PRESIDENTESSE DI WERNER SCHWAB A PROSPETTIVA150
The Walk di Bosetti/Cuocolo
Il resto, con riflessioni e appunti anche di @satyrika, lo trovate qui
Mi chiamano dall’azienda, la nuova:
-ieri hai incontrato qualcuno dei nostri in via Po?
-no, perché?
-uno dei recapiti ha detto che ha visto due dei nuovi in via Po.
-non ho incontrato nessuno,se mi ha visto poteva salutarmi
-no è che ha visto due dei nuovi insieme… Non hai lavorato li?
-ho lavorato anche in via Po e non ho incontrato nessuno. Cos’è successo?
-no è che, sai,non si può lavorare insieme e questo ha visto due dei nuovi che erano insieme…
-no, non so. ti porto il terminale con le letture alle 5 e vado via, ho i cani da portare a spasso. A lunedì.
La scrittura della nona pagina è terminata.
Ora si tratta di leggere, rileggere, correggere, riscrivere, scegliere la foto e pubblicare.
I giorni di vacanza che ho dal lavoro di letturista sono iniziati e li dedicherò alla scrittura delle restanti pagine. Non ho idea di quante ce ne saranno ancora. Ho tre quaderni di appunti e spero di cavarne fuori qualcosa di buono. Vedremo.
Se a qualcuno interessa a questo link si trovano le pagine scritte finora e pubblicate su Satyrikon.
Buona lettura e grazie!
Riprendo a scrivere qui e lo faccio con gioia. Non sapevo che farne di questo spazio: chiuderlo? renderlo privato? Invece vedo che qualcuno ancora passa di qua e, visto che qualcosa è successo, torno a usarlo.
Bene, per scrivere cosa?
Restare a casa per una influenza può essere una buona occasione. Non solo per gustare un po’ di meritato riposo, ma anche per studiare, portare a compimento un po’ di cose rimaste in sospeso e riflettere.
Una delle domande che mi sono posto è: perché non sto andando a teatro?
Da poco è cominciato il Festival delle colline e il mio interesse si è arenato alla lettura veloce del programma. Eppure è uno dei festival più importanti, è uno di quelli che rischia di chiudere. Come tanti luoghi di cultura in Italia.
Un motivo ci sarà alla depressione che mi coglie passando davanti alla biglietteria dei festival, che hanno aperto alla cavallerizza reale, o davanti al Teatro Carignano, o al Gobetti. Ma cos’è? Saranno gli sponsor? Il logo della fabbrica italiana automobili torino e quelli delle banche. Sarà che in questa primavera leggere gli appunti di V. Mejerchol’d su “Teatro e Rivoluzione” e poi andare a uno spettacolo che ha il logo della fiat stampato sul programma di sala mi fa orrore. Sarà che non è cosa, che la febbre e i dolori ai muscoli mi rendono nervoso.
Una settimana fa circa apro la casella di posta elettronica e trovo un messaggio che arriva dal blog dei Wu Ming. Ottimo, mi dico. Un po’ di aria buona.
E il post si è rivelato essere il tonico che mi ci voleva. Scritto da Luca aka Wu Ming 3 ha per titolo: Fùtbologia. La Rivoluzione rotola?
Fùtbologia è “un proclama, un appello, una minchiata, una promessa, un invito, un dài dài dài alla cazzo di cane, una richiesta d’aiuto. Una proposta di calcio totale alla depressione. Attacchiamo. Divertiamoci.” Da concretizzare in “un festival di tre giorni a Bologna per parlare con stile di calcio.”
Il mio primo pensiero è stato: bellissimo, voglio andare.
Il secondo: A far cosa? Perché? Non guardo una partita in TV da ormai 6 anni. Non so chi abbia vinto il campionato italiano degli ultimi 8 anni. Se mi mettono davanti una qualunque formazione senza nessuna indicazione, non so ricondurla a nessuna società.
Comunque, preso da un demonietto gioioso, mi sono messo a guardare su internet anche alcune partite dell’Europeo 2012.
Il tutto con leggero sbigottimento di mia moglie, che avrebbe giurato sulla mia totale indifferenza al giuoco calcio.
Da bambino tifavo Roma, quella del presidente Viola, quella di Falcao. Quella che se la giocava con l’odiata Juve (all’epoca non sapevo perché, l’ho capito più tardi il perché). Poi più niente, anche se quando gioca la Roma… Beh, è diverso.
Non gioco una partita vera da circa 20 anni. Era una semifinale di un torneo di calcetto, la ricordo bene, giocavo in difesa. Non arrivammo in finale e non segnai neppure un gol. Mi arrabbiai molto, anche questo lo ricordo bene. Perché se non vinci non vali niente. Non vale se ti diverti, vale se vinci. E questo mi fece cominciare a rendere odioso il paese in cui stavo crescendo. Ma questa è un’altra storia.
Dopo ci furono le partite in spiaggia fra amici e niente più calcio giocato. Niente tornei, niente partite il fine settimana. I miei amici andavano a giocare a pallone, io mi prendevo la racchetta da tennis e andavo ad allenarmi al campetto accanto.
Un altro episodio che ricordo bene è legata a un grosso vaffanculo detto a un tipo più grande e più grosso di me. Stavamo tornado a casa dopo la scuola, eravamo sul trenino che collega la metropoli Catanzaro al paesello. I mondiali Usa del 94 erano passati da poco e lui stava sparlando di Maradona. E no eh, Maradona non si tocca.
Dopodiché un costante, inarrestabile, allontanamento dal calcio. Ho continuato a seguire, con mio padre (che ha sempre religiosamente rispettato il rito domenicale di 90° minuto e Stadio Sprint) e mio fratello prima e con gli amici/coinquilini nel periodo universitario poi, alcune partite del campionato e i mondiali. Ma con poco entusiasmo.
L’unica squadra di cui ho fatto parte, dal 1998 al 2005, mi ha portato a giocare e sudare e divertirmi, anche nelle situazioni peggiori, in alcuni dei più importanti teatri italiani. L’allenamento quotidiano, lo spogliatoio, le tattiche ripetute fino alla nausea e i debutti davanti a decine e a volte centinaia di spettatori paganti l’ho vissuto con una squadra magnifica composta da donne e uomini generosi, atleti magnifici. A loro devo molto. Insieme vincemmo anche un prestigioso premio nazionale in quel di Sant’Arcangelo di Romagna (insieme a un altra squadra palermitana che poi divenne molto più famosa di noi, ma va bè anche questa è un’altra storia). Alle compagne e ai compagni di Teatro Rossosimona va la mia gratitudine, per avermi insegnato il gioco di squadra.
Tutto questo delirio per dire cosa. Per dire che Fùtbologia ha aperto un luogo di confronto e in tempo di crisi, in cui si è tentati di chiudersi a riccio e difendere il proprio piccolo spazio di sopravvivenza, è cosa lodevolissima. E la proposta di calcio totale alla depressione ha sortito in me l’effetto di farmi tornare in strada con gioia. Prendere in considerazione che anche in Teatro, così come nel calcio, i bei tempi non ci sono mai stati. Che è possibile fondare da basso una università del teatro, perché no? Che è possibile farlo. Che le oligarchie teatrali in Italia ci sono e continueranno a esserci e l’occasione per tirargli una bastonata sui denti bisogna sapersela creare. E poi coglierla e non sciuparla. Così come trovarsi da solo davanti al portiere, dopo un’azione ben costruita con un buon gioco di squadra.
Così, studiando fùtbologia, ho maturato la certezza che un giorno tornerò a giocare il mio gioco sulle assi di non so ora quale teatro.
Domani tornerò a quello che ora è il mio lavoro. Metterò nello zaino una copia di Calcio: 1898-2010 di John Foot. Leggerò qualche pagina durante la pausa. Farò un po’ di gradoni, come dicono i compagni di Fùtbologia.
Verrò a Bologna. Grazie Compadres.
Gli unici libri riconducibili al calcio che ho letto finora sono:
Io sono el Diego di Diego A. Maradona e Discorso su due piedi di C. Bene e E. Ghezzi
La mia porta d’ingresso al teatro è il teatro russo. Posso pensare al lavoro teatrale da fare oggi, in questi tempi oscuri, partendo da maestri russi. E se una rivoluzione oggi c’è da fare credo sia giusto rileggere i loro appunti, e trarne un insegnamento utile “per sovvertire il fallimento del presente”.
Discorso pronunciato il 29/11/1926, nel corso di una seduta dedicata alla memoria di E. Vachtangov , nella sala dell’omonimo teatro di Stato.
Ora che il teatro sta attraversando uno dei suoi peggiori periodi, l’assenza di un lavoratore come Evgheni Bagrationovic si fa particolarmente sentire. Vachtangov non si limitava a scrivere proclami, lettere o diari, ma era un uomo che sapeva lavorare sul serio.
In teatro Vachtangov era un vero e proprio operaio e ogni giorno la sua assenza si fa sentire. (…)
Il teatro non viene costruito soltanto da coloro che lavorano sulla scena, sia pure dimostrando grande talento: esso nasce dalla volontà del pubblico. Il teatro si divide in due parti: se in una di esse tutto procede bene, questo non significa ancora che tutto proceda bene nell’edificio intero. Il teatro comincia a esistere dal momento in cui esiste una rispondenza da parte del pubblico a quanto avviene sulla scena. (…) Il teatro si trova oggi in una situazione quanto mai difficile, forse la più difficile che abbia mai attraversato, e questo perché è stata trovata una ricetta di estrema semplicità per creare un teatro non rivoluzionario, ma quasi rivoluzionario. (…) Vachtangov, uomo dotato di grande intelligenza ed energia, aveva compreso che la rivoluzione non significa distruzione, che la rivoluzione consiste prima di tutto nel creare e infatti prima di ogni altra cosa la rivoluzione è creazione. (…)
La rivoluzione deve essere strettamente legata alla cultura. Di nuovo dobbiamo ricordare Lenin il quale sempre, per qualsiasi lavoro, parlava di cultura. Egli diceva che la rivoluzione e la cultura sono un tutto unico. Questa è la ragione per cui dobbiamo condannare le grandi tirate demagogiche di coloro che gridano: come sarebbe a dire, ritirarsi? Ma in realtà si tratta di gente estremamente miope e se credono che i maggiori valori della nostra cultura siano roba del passato, degna solo di un gesto di disprezzo, si sbagliano di grosso. (…)
Nel lavoro dell’attore è particolarmente importante che esista un ponte lanciato verso il futuro. Se non siete in grado di rendervi conto dell’evoluzione che sta compiendo in questo momento l’umanità, se non siete capaci di scorgere e di raggruppare a destra i capitalisti e a sinistra i lavoratori, se non vi sentite ispirare dalle strabilianti conquiste della scienza e della tecnica, già oggi in grado di farci capire che stiamo lavorando indefessamente alla creazione di valori nuovi, allora in generale non dovete recitare. Se nel recitare la parte che vi verrà assegnata non ricorderete tutto questo, se non verserete nei vostri successi la fiamma di tutti gli immensi successi che gli operai raggiungono nel mondo intero, sarà meglio che non recitiate.
Ricordo la mia visita al porto d’Amburgo. Là ho compreso sul serio che il mondo non appartiene ai padroni dell’oro e del capitale, ma a coloro che ogni giorno martellano delle pietre e permettano che vengano varate delle navi. Sentite allora che si tratta di un edificio gigantesco che nessun capitale potrà mai erigere e che essi invece costruiscono con la forza delle loro mani callose.
Quando nei giornali leggete del Volchovstroi, vi sembra impossibile ed è difficile che tutti vi rendiate conto come questa forza enorme sia frutto della mente geniale di Lenin e degli sforzi di masse sterminate le quali dicono: “il mondo appartiene a noi, perché noi lavoriamo”. Ecco perché qui oggi porgo il mio saluto alla rivoluzione proletaria e ai suoi indissolubili legami con la cultura.
Vsevolod Mejerchol’d, La rivoluzione teatrale, editori Riuniti, 2001, pagg 220-224
Ho letto Zagreb in meno di due ore. Due intense immersioni nell’orrore evocato dalla scrittura asciutta ed essenziale di Arturo Robertazzi. L’ho letto all’aria aperta, in due giorni distinti, ho diluito nel tempo e nello spazio intorno a me l’intensità delle immagini, per non stramazzare a terra come un sacco svuotato. Non ci sono fronzoli, né espedienti narrativi ad alleggerire la tensione, non c’è colpo di scena risolutore, non c’è niente che renda simpatico un dettaglio, un personaggio, non c’è niente di bello in questa storia, per un semplice motivo: perché la guerra è sporca, è una ferita piena di pus, e puzza terribilmente.
E a tutto questo si accede già dalle prime righe: “Quel mattino era un bel mattino, facemmo fuori quattro persone.” Poche parole che ci fanno precipitare nel teatro di una guerra che evoca altre guerre, compresa quella che ha lacerato l’ex Jugoslavia. Così simile alle tante che ci sono state e sono ancora in corso.
Zagreb non è una lettura che pacifica, non è consolatoria ed è giusto che sia così. Ha il pregio di evocare l’orrore.
Ho provato far entrare in risonanza il romanzo con il monologo finale del colonnello Kurtz di Apocalypse Now:
“E’ impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sannno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna farsi amico l’orrore. Orrore. Terrore morale e orrore sono i tuoi amici, ma se non lo sono essi sono nemici da temere. Sono veri nemici.”
Il protagonista di Zagreb è un dispensatore di orrore: si occupa dei prigionieri, assiste e contribuiscce alla loro disumanizzazione. La massa dei prigionieri è per lui “un’unica Bestia terrorizzata”, Il terrore morale e l’orrore sono suoi amici.
Il suo arruolamento fra le file della Grande Nazione è avvenuto per reazione: subisce l’orrore, diventa un dispensatore di morte che “uccide senza emozione, senza passione, senza discernimento” (dal monologo di Kurtz) perfettamente inserito in un meccanismo di trasmissione ed esecuzione di ordini semplici e spietati.
Robertazzi in Zagreb preme molto sulla distinzione ossessiva del Noi Vs Loro, l’intera guerra è basata su questo e non ha importanza se “loro” vuol dire la mia fidanzata, il mio migliore amico, il mio vicino. Loro sono i nemici, loro adesso sono più deboli e bisogna approfittarne. Ora bisogna farli fuori e non c’è tempo o spazio per altro. Per niente altro. Lentamente, soprattutto grazie a un incontro inaspettato, il protagonista comincia a non vedere più una massa indistinta ma corpi sofferenti.
Compie delle scelte e giudica le proprie azioni e quelle dei propri compagni fino ad arrivare a un grado di consapevolezza tale da dire: “la realtà tornò faticosamente a prendere forma. E fu allora che vidi per la prima volta la muffa che decorava ogni angolo del corridoio, (…) il sangue incrostato alle pareti (…) Per la prima volta tutto arrivò chiaro ai miei occhi. La guerra. L’orrore. La Base.” Sceglie di non uccidere più e la presa di coscienza è una condanna, implica il tradimento, la perdita dell’identità.
Il romanzo si chiude con lo scoppio di una bomba sulla Base, sulla fabbrica trasformata in lager, e il protagonista si sveglia fra i calcinacci e i corpi dei compagni. E’ un sopravvissuto e questo nuovo status basta forse per ricominciare, per testimoniare, per dire con Kurtz: “E voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo, non voglio mai dimenticarlo.”
qui l’intervista ad Arturo Robertazzi fatta da Angelo Ricci e nella sezione Zagreb la storia dietro i materiali, raccolti durante la stesura del romanzo, sul conflitto nella ex_Jugoslavia e messi a disposizione in rete.
Vittorio Arrigoni
Besana Brianza, 4 febbraio 1975 – Gaza, 15 aprile 2011
Averrevu e morere
e nà morte lenta
lenta,
nà morte ca vi leva
juernu ‘ppè juernu,
e ciangere tutte e lacrime d’e muerti
ca aviti fhattu
ciangere àcitu d’e santi
senza riciessu mai…
Averrevu e morere chianu
chianu,
suli,
‘mpo’ ndè resta nente
mancu nù jatu
nù ritrattu, nà vuce,
nente.
Averrevu e morere ogni juernu.
a conclusione d’à notte.
Il fastidio monta, non tanto – non solo- l’indignazione. Non mi indigna un leghista, siamo in democrazia no? Mi dà fastidio lo sdoganamento dell’ignoranza cafona. Mi da fastidio il qualunquismo d’accatto, le bugie ripetute come mantra tipiche del fascismo vecchio e nuovo. Mi da fastidio che un leghista assessore alla cultura (!?!) si permetta di intimare, minacciare. E’ ripugnante che esista la cornice ‘culturale’ all’interno della quale qualcuno possa dire qualcosa del genere, forte del fatto che nessuno oserà contraddirlo.
La bassezza di un tale gesto spinge naturalmente verso un giusto disprezzo nei confronti dell’ignoranza che lo ha partorito.
Per chi vuole saperne di più e seguire gli sviluppi del rogo dei libri proposto dall’assessore leghista può seguire la discussione su giap qui il link
Vivo giornate agitate, fra i molti che incontro non penso di essere qualcosa di diverso se non ‘uno fra i tanti’. Vivo le mie giornate fino in fondo, cercando di far bene, e mi sforzo di farlo con dignità. Come sostegno, oltre agli affetti, ci sono i libri, le parole con cui alcuni scrittori hanno voluto lasciare una traccia, forse (decisamente credo) da seguire:
“Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava; doveva volgersi in collera, e la collera essere incanalata in una rivolta organica e tempestiva: ma non ci insegnarono come si fabbrica una bomba, nè come si spara un fucile.”
(Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, pagg. 133-134)
Leggo così dell’oggi, leggo e trovo conferme per strada: fra le persone che incontro per lavoro 9 ore al giorno cinque giorni alla settimana. Capisco il perché di certi atteggiamenti, capisco la paura, capisco e provo a incanalare la mia collera nel modo migliore.
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum.Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè
non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.
(5/03/ 1922 – 27/11/ 1975)
per chi sa e non ha le prove—> http://tv.repubblica.it/copertina/il-delitto-pasolini-nelle-immagini-di-citti-e-martone/46580?video
Suono a brutto citofono
chiedo permesso
‘posso entrare per…?’
parole vomitate metalliche in risposta,
un suono secco e son dentro.
Mi porto dietro la fedele 2 ruote.
Attraverso un cortile assolato,
incrocio un tizio Tarchiato Rasato Tatuato
uno sguardo di pietra mi sfiora,
sento un disagio cupo
credo sia stanchezza
tiro dritto verso al figura di vecchio sul fondo
fermo sulla porta del Basso a destra.
Il Vecchio vomita parole confuse e
gesti ampi da terrone,
ha un solo incisivo in bocca.
L’unica via è scendere dalla scala a sinistra
5 metri sotto terra
tornare indietro verso l’androne,
trenta metri di cortile
fare il lavoro e tornare indietro.
Mi arriva l’immagine di una cantina devastata, come tante.
Appoggio la fedele 2 ruote al muro
accanto alla porta della cantina
non la lego,
torna il disagio la stanchezza
sostenuta dal tanfo di terra umida.
Vado giù, percorro i corridoi,
compio svolte, supero porte sfondate.
La luce della torcia elettrica
è la mia isola di calma
fischio il ritornello che ho scelto
per quest’altro giorno di fatica
quasi alla fine.
Andata e ritorno forse 3 minuti.
Torno su, respiro,
la 2 ruote è svanita.
Il vuoto mi esplode dentro
cerco il vecchio che dice
“è chinu e bastardi, è chinu e strhanìeri ccà” ,
vero italiano del 150°.
Cerco e bestemmio e non credo,
non ti credo Vecchio
e te lo dico
e non servono i tuoi gesti
ho capito
che la 2 ruote è ancora qui dentro
che forse è uno scherzo balordo
che non c’è cazzo
che sei stato tu
e il Tizio Tarchiato Tatuato
come un pittbull mi è addosso
mano in faccia
“checomecazzotipermetti?minchia
miopadrechehasemprelavorato?
chehasemprelavoratoetudicicherubba?
ammiopadrechecomecazzotipermetti?”
Li blocco come posso,
non mi faccio toccare,
e so che potrei entrare nella merda
in un attimo sarebbero pugni e calci e
mi vedo col palanchino spaccare la faccia
al Vecchio e al Tarchiato Tatuato,
spaccargli le ossa.
Mi vedo e parlo
gli punto gli occhi addosso, controllo la voce
parlo e mi allontano piano
e tengo gli occhi sui loro visi
e tengo a bada la mia paura,
le urla che dentro mi dicono di ammazzarli.
Di fare qualcosa, di fargli male.
Fuori dal cortile,
per strada ombre
ci passano accanto,
arriva un terzo in bmw, sembra un film,
accosta e rutta un
“ci sono problemi?”
il Tarchiato Tatuato sorride.
Ti denuncio dice il Vecchio.
Mi allontano, lucido, sconfitto,
non tremo neppure,
mi chiedo perché questo.
Non mi è servito a niente:
non ho più la 2 ruote
il Tarchiato Tatuato mi ha *toccato* la guancia,
mi è rimasto nelle orecchie il
“checazzomenefotteammèchetucilavori?
checazzomenefotteeh?”
e mi sento una pezza,
aver evitato la rissa non mi fa sentir meglio
e cosa avrebbe fatto Philip Lacroix?
mi chiedo,
Cosa?
il ritornello è tratto da http://youtu.be/fjWlIWf9bfA.
Ho letto Nel nome di Ishmael prevalentemente di notte, per circa una settimana o poco più, l’ho finito stasera (28 agosto ’10). Qualcosa mi ha imposto il rito della lettura notturna, mi piace lavorare di notte, scrivere, di solito invece leggo ovunque posso, quando posso. Questa volta è stato diverso. E’ stata una lotta, me ne rendo conto ora che mi vengono in mente alcuni passaggi del libro che entrano in risonanza con Dies Irae;
Fondamentalmente una lotta con la materia narrata, una lotta fisicamente spossante a fianco dei personaggi. Ogni capitolo un round più o meno duro, uno scambio di colpi serrato in cui se non si dosano le forze si resta senza fiato con la guardia abbassata, in balia dell’avversario, e il tappeto si avvicina. Per me è stato un po’ così. E chi è l’avversario?
E’ la Storia ufficiale, monolitica e opaca che torna su come un conato di vomito, insieme alla sensazione che davvero sia andato tutto in modo diverso da come lo raccontarono allora, e quindi anche ora le cose non vanno per come le scrivono sui giornali e poi le scriveranno sui libri di Storia. E perciò leggendo, lottando, nascono connessioni fra storie inventate, giocando su eventi e persone reali, e le parti sfrangiate dei tassellli degli eventi tramandati e vedi che il mosaico alla fine è diverso da quello che si trova fra le pagine della Storia ufficiale. E se si ha coscienza e attenzione, il gioco diventa divertente anche se i cazzotti arrivano giù pesanti, come durante una sessione si allenamento con un maestro esigente e navigato. E Genna ha una scrittura densa, con squarci improvvisi da cui emergono affetti che solo la poesia può gestire, una scrittura agile ma dai colpi duri da medio massimo della scrittura.
(Questo articolo l’ho pubblicato sulla mia libreria di anobii ad agosto lo ripropongo qui per comodità di archiviazione)
Scarpa con questo libro prova a fare una cosa difficilissima, prova a fare musica utilizzando la prosa. La partenza non può che essere in una posizione di svantaggio, il risultato non può che essere mancante di qualcosa. Nello stereo continua a suonare il cd con le Quattro stagioni , La Tempesta del mare e L’estro armonico di Vivaldi, ho appena finito di leggere Stabat Mater. Si apre il ibro, si comincia a leggere e si è già nel pieno della storia, non c’è introduzione, niente preparazione e le parole di Cecilia hanno magnetismo e bisogna ascoltare e sintonizzarsi, poi si procede insieme alla sua voce. E la bellezza dei passaggi fra i piani emotivi non tarda a manifestarsi. Per me è stato così. Ci sono momenti molto belli, intensi da sentirserli risuonare dentro il suono delle domande e il senso della solitudine di Cecilia. Ci sono momenti in cui gli anacronismi (ammessi da Tiziano Scarpa nella nota a fine libro) sia di linguaggio che storici suonano stonati e, pur sostenendo la scrittura e la narrazione, creano delle crepe fastidiose. Come Cecilia anche Scarpa stona consapevolmente, stona perché sa di saperlo e poterlo fare e le parole si srotolano in un continuum creato con delicatezza e potenza e allora tant’è si continua a leggere, però… Da circa metà libro in poi ho letto ascoltando la musica di Vivaldi (la versione di Europa Galante, molte altre con ‘autori e interpreti che hanno preso sul serio la musica vivaldiana’ le consiglia l’autore nella nota) a volume piuttosto sostenuto e, anche se non è necessario al fine di gustarsi la storia, è stato un modo per afferrare e mantenere il ritmo della scrittura. C’è un momento in cui Scarpa, attraverso Cecilia, parla di linguaggio, significato, relazioni fra note e fra note e parole: accordi. Stabat Mater è fatto di accordi da scoprire, a volte stonati a volte armonici ed è in se un bel omaggio musicale, suonato da Scarpa con un pizzico di necessaria serietà, al proprio compositore preferito. Applausi. Resta l’impressione che qualcosa non si sia potuta fare. Silenzio.
Non c’è niente.
Posso star fermo
a guardare e non
c’è pensiero di…
non c’è niente.
Come essere morti.
…
E se arrivasse giù
una bomba da sù
dal fottuto cielo,
cosa saprei fare?
…
Se mi trovassi
sbattuto in aria
coperto di terra
e sangue e merda di
qualcuno finito male,
cosa saprei fare?
…
E se continuasse
e continuasse a esplodere
questa terra in giro
e con muscoli rotti
e orecchie sanguinanti
cosa farei?
…
Col mondo che viene giù
cerca di entrarti dentro
e il suono ti assorbe,
cosa faresti?
…
E se a morire con
la pancia aperta da
una scheggia fossi io
…
Cosa penserei?
fra le lacrime il sangue la merda
della mia vita
fra polvere e urla
e sto cielo in fiamme
sta vita che si chiude
lontano da tutti
in mezzo al niente,
cosa farei di buono?
Cosa ci sarebbe da fare?
…
Se mi svegliassi e fosse
tutta un’ipotesi umana
concreta folle umana,
cosa deciderei di fare?
…
Prima che qualche stronzo lo faccia davvero,
cosa faccio?
Cosa voglio fare?
Nell’anno mio trentaquattresimo di vita
nel momento dell’apparente stasi
nel paese in necrosi
bevuto fino in fondo il bicchiere
della passata gioventù
mi esercito a far di conto…
approssimativo.
(l’editor mio interiore e tiranno
è già pronto a dir che questa
è sconveniente cosa
è mediocre esibizione
e perciò da cestinare
senza pietà
ma il tempo non…
è dalla mia parte
gli sputo in faccia
levo gli ormeggi)
Sento prematura vecchiezza
– maturità si dice-
farsi largo con forza
una potenza che non vi fu
un lustro fa
ed eccomi a guardare nello specchio
e dire che non c’è tempo,
lasciare andare e far invecchiare.
E ora nell’anno duemiladieci in cui
fallirono progetti e intenzioni
in questa estate nella torino
del centocinquantenario che non conta
fra turisti e movida d’accatto
con l’affitto arretrato
la famiglia da mantenere
col morso ai denti e
senza collare (come Villar secoli fa)
medito atti per non fallire conti.
Non ho lacrime da versare in pubblico
non più recito edipo
non ho scherzi per bambini
né naso rosso e palloncini,
non più,
non ho commissioni
né sbagli altrui da aggiustare
né luci da creare,
son chiusi i teatri
quest’anno son blindati.
Se l’amor patrio di molti
teatranti non fosse sbocciato
ci sarebbe speranza
ci sarebbe forse stato bagliore
di un’arte non genuflessa
ma i finanziamenti si sa
son questioni di panza
son indirizzati
e se la bolletta incombe è facile
esser sviati.
Ma star a dire del passato
è parlare ai vermi
dice Ferdinand
e non ho niente da dire
sulle mie cose che furono,
cose fra le tante cose.
Il niente di adesso mi incuriosisce
questo incerto vuoto a cui
i vecchi d’Italia han condannato
chi resta e chi verrà,
(i vecchi intendo
quelli di sempre
i signori della guerra
dietro la linea del fronte al sicuro
quelli che gonfiano ancora oggi il petto
quelli con la voce stridula
che esorbitano esorbitano fino
a schiattare con nazioni intere
quelli con le stellette e le
facce mortuarie
quelli col vestito bianco da millenni
quelli che ridono sempre dei morti
-i soliti otto-
che guardarono morire un ragazzo
uno nella mattanza di una città)
Questo niente
in cui si annullano
lauree diplomi da scuola dell’obbligo
il nulla da benessere da discount
un niente da prima serata
con luci al neon
che fiaccano passioni…
Questo niente
di strade senza popolo
senza lotta,
il franchising del nulla interinale.
Un bip all’ingresso del niente.
Un open space tappezzato di bugie.
Nell’anno scritto poco su
non piango la mia gioventù
curo gli affetti,
correggo i miei sbagli,
vado avanti con la mia amica sorella amante
compagna di vita e di lotta.
Come tanti sto nel mezzo del mio cammino
e guardo questo niente quotidiano
vivo i giorni, abito battaglie,
non c’è giorno senza sangue.