Quella che segue non è una recensione, è più un insieme di appunti che ho preso dopo aver letto un libro che mi è piaciuto molto. Un esercizio quindi, di cui metto in mostra il risultato finale. Di seguito elenco ciò che mi ha colpito di più.
In questi giorni sto leggendo Dora Bruder di Patrick Modiano, libro di una forza spaventosa. Forza non solo della memoria ma della narrazione. In questo libro Modiano riporta i nomi di funzionari di polizia, di magistrati e guardie di vari livelli e gradi (quelli che è riuscito a scovare) che furono collaborazionisti dei nazisti durante l’occupazione della Francia. Bontà (e vergogna) loro.
I don’t mind stealing bread
From the mouths of decadence
But I can’t feed on the powerless
When my cup’s already overfilled
Ho scritto su fb una piccola lista dei libri che ho letto nel 2017 e che più mi sono piaciuti. (Sì, lo so che le liste stancano, nel caso passate oltre). Il post non è visibile per chi non ha fb e perciò lo riscrivo anche quassù. Un luogo che vorrei riportare in movimento.
E’ uscito pochi giorni fa in libreria Un viaggio che non promettiamo breve di Wu Ming 1, edito (coraggiosamente) dalla casa editrice Einaudi.
L’impressione che ho è che le città inizino ad assomigliarsi un po’ tutte, a partire dalle stazioni ferroviarie. Sarà forse perché una volta scesi dal treno ci si ritrova davanti bar, negozi e librerie che fanno parte di catene commerciali. Stessi marchi, stesse vetrine, stessi prodotti un po’ ovunque.
La tendenza è verso un modello commerciale che rende i centri delle città interscambiabili tra loro, nella sostanza.
Un mese fa circa ho buttato giù qualche appunto su Le antiche vie di Robert Macfarlane, il testo è stato pubblicato sul sito Alpinismo Molotov. Lo ripubblico quassù così da tenere insieme un po’ di tracce. Buona lettura.
Ho letto Zagreb in meno di due ore. Due intense immersioni nell’orrore evocato dalla scrittura asciutta ed essenziale di Arturo Robertazzi. L’ho letto all’aria aperta, in due giorni distinti, ho diluito nel tempo e nello spazio intorno a me l’intensità delle immagini, per non stramazzare a terra come un sacco svuotato. Non ci sono fronzoli, né espedienti narrativi ad alleggerire la tensione, non c’è colpo di scena risolutore, non c’è niente che renda simpatico un dettaglio, un personaggio, non c’è niente di bello in questa storia, per un semplice motivo: perché la guerra è sporca, è una ferita piena di pus, e puzza terribilmente.
E a tutto questo si accede già dalle prime righe: “Quel mattino era un bel mattino, facemmo fuori quattro persone.” Poche parole che ci fanno precipitare nel teatro di una guerra che evoca altre guerre, compresa quella che ha lacerato l’ex Jugoslavia. Così simile alle tante che ci sono state e sono ancora in corso.
Zagreb non è una lettura che pacifica, non è consolatoria ed è giusto che sia così. Ha il pregio di evocare l’orrore.
Ho provato far entrare in risonanza il romanzo con il monologo finale del colonnello Kurtz di Apocalypse Now:
“E’ impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sannno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna farsi amico l’orrore. Orrore. Terrore morale e orrore sono i tuoi amici, ma se non lo sono essi sono nemici da temere. Sono veri nemici.”
Il protagonista di Zagreb è un dispensatore di orrore: si occupa dei prigionieri, assiste e contribuiscce alla loro disumanizzazione. La massa dei prigionieri è per lui “un’unica Bestia terrorizzata”, Il terrore morale e l’orrore sono suoi amici.
Il suo arruolamento fra le file della Grande Nazione è avvenuto per reazione: subisce l’orrore, diventa un dispensatore di morte che “uccide senza emozione, senza passione, senza discernimento” (dal monologo di Kurtz) perfettamente inserito in un meccanismo di trasmissione ed esecuzione di ordini semplici e spietati.
Robertazzi in Zagreb preme molto sulla distinzione ossessiva del Noi Vs Loro, l’intera guerra è basata su questo e non ha importanza se “loro” vuol dire la mia fidanzata, il mio migliore amico, il mio vicino. Loro sono i nemici, loro adesso sono più deboli e bisogna approfittarne. Ora bisogna farli fuori e non c’è tempo o spazio per altro. Per niente altro. Lentamente, soprattutto grazie a un incontro inaspettato, il protagonista comincia a non vedere più una massa indistinta ma corpi sofferenti.
Compie delle scelte e giudica le proprie azioni e quelle dei propri compagni fino ad arrivare a un grado di consapevolezza tale da dire: “la realtà tornò faticosamente a prendere forma. E fu allora che vidi per la prima volta la muffa che decorava ogni angolo del corridoio, (…) il sangue incrostato alle pareti (…) Per la prima volta tutto arrivò chiaro ai miei occhi. La guerra. L’orrore. La Base.” Sceglie di non uccidere più e la presa di coscienza è una condanna, implica il tradimento, la perdita dell’identità.
Il romanzo si chiude con lo scoppio di una bomba sulla Base, sulla fabbrica trasformata in lager, e il protagonista si sveglia fra i calcinacci e i corpi dei compagni. E’ un sopravvissuto e questo nuovo status basta forse per ricominciare, per testimoniare, per dire con Kurtz: “E voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo, non voglio mai dimenticarlo.”
qui l’intervista ad Arturo Robertazzi fatta da Angelo Ricci e nella sezione Zagreb la storia dietro i materiali, raccolti durante la stesura del romanzo, sul conflitto nella ex_Jugoslavia e messi a disposizione in rete.
Ho letto Nel nome di Ishmael prevalentemente di notte, per circa una settimana o poco più, l’ho finito stasera (28 agosto ’10). Qualcosa mi ha imposto il rito della lettura notturna, mi piace lavorare di notte, scrivere, di solito invece leggo ovunque posso, quando posso. Questa volta è stato diverso. E’ stata una lotta, me ne rendo conto ora che mi vengono in mente alcuni passaggi del libro che entrano in risonanza con Dies Irae;
Fondamentalmente una lotta con la materia narrata, una lotta fisicamente spossante a fianco dei personaggi. Ogni capitolo un round più o meno duro, uno scambio di colpi serrato in cui se non si dosano le forze si resta senza fiato con la guardia abbassata, in balia dell’avversario, e il tappeto si avvicina. Per me è stato un po’ così. E chi è l’avversario?
E’ la Storia ufficiale, monolitica e opaca che torna su come un conato di vomito, insieme alla sensazione che davvero sia andato tutto in modo diverso da come lo raccontarono allora, e quindi anche ora le cose non vanno per come le scrivono sui giornali e poi le scriveranno sui libri di Storia. E perciò leggendo, lottando, nascono connessioni fra storie inventate, giocando su eventi e persone reali, e le parti sfrangiate dei tassellli degli eventi tramandati e vedi che il mosaico alla fine è diverso da quello che si trova fra le pagine della Storia ufficiale. E se si ha coscienza e attenzione, il gioco diventa divertente anche se i cazzotti arrivano giù pesanti, come durante una sessione si allenamento con un maestro esigente e navigato. E Genna ha una scrittura densa, con squarci improvvisi da cui emergono affetti che solo la poesia può gestire, una scrittura agile ma dai colpi duri da medio massimo della scrittura.
(Questo articolo l’ho pubblicato sulla mia libreria di anobii ad agosto lo ripropongo qui per comodità di archiviazione)