Due Novembre, Vienna
Lunedì 02.11
Eravamo in tre in chiusura, cosa insolita. Nonostante la mole di lavoro – pulire cucina, sala e bar, lavare i bagni, i frigoriferi e la vetrina, chiudere il dehor e portare in cantina un po’ di tavoli ché tanto con le nuove restrizioni il dehor non si potrà usare quindi portiamo giù i tavoli per poi riportarli su tra qualche settimana… – eravamo riusciti a chiudere poco oltre le 19:00. Da festeggiare. Così poco oltre le 19:00 che non valeva la pena segnarlo come straordinario. Eravamo contenti così e abbiamo fumato una sigaretta godendo della temperatura mite e dopo aver chiuso la porta ci siamo avviati verso il Graben chiacchierando, saranno state le 19:30. Raggiunta la Hofburg ci siamo salutati e abbiamo scherzato sul fatto che non ci saremmo rivisti a lavoro prima di Dicembre, visto che avremmo lavorato a giorni alterni fino alla fine delle restrizioni essendo tutti in Kurzarbeit. Ci siamo separati e sono montato in bici, superata Heldenplatz una bordata di suono mi ha investito, ha saturato l’aria. Luci di lampeggianti in lontananza. Tolgo le cuffie, attraverso il Ring e capisco che è in corso una festa, non capisco per cosa possa essere e non mi curo di chiedere, forse per esorcizzare il fatto che da domani si dovrà restare a casa a partire dalle 20:00. Mi immetto sulla Mariahilferstraße e mi concentro su ciò che sto ascoltando e mi sorprendo sempre un po’ di come il cervello riesca a seguire sia il discorso in cuffia che l’andamento delle auto e delle persone che camminano, attraversano, si fermano e non guardano dove vanno… Raggiungo casa, saluto mia moglie e i cani e mi rilasso con una doccia, mi arriva un messaggio da un amico in Italia con tre punti interrogativi e un link a un articolo dal titolo “Vienna attacco alla Sinagoga, spari in centro città”.
Non ne sappiamo niente.
La Sinagoga è forse a duecento metri da dove lavoro, era tutto tranquillo quando siamo andati via. Apro internet e su Twitter ci sono dei video, riconosco l’ingresso della metropolitana a Schwedenplatz, si vedono delle figure che cercano riparo, si sentono degli spari. In un altro video mi sembra di riconoscere la via che porta alla Sinagoga e un uomo con un fucile in mano che la percorre, chi sta girando il video gli urla di andare via, stronzo.
Le informazioni su Twitter sono contraddittorie, sembra quasi che ne sappiano più i giornali italiani che non quelli viennesi: scrivono di persone prese in ostaggio in un ristorante cinese, che poi diventa giapponese. Scrivono di almeno sette morti, l’account twitter della polizia viennese scrive che i morti sono due. Sempre troppi, ma due e non sette. In più mi infastidice il solito atteggiamento che ormai la fa da padrone in rete e già si pontifica su tutto, dalla matrice ideologica al numero dei componenti del commando, dalla chiusura dei confini al dio dei cristiani morto combattendo Saladino, dal numero dei morti al “glielo farei vedere io!1 armiamoci e partite”. Scrivo un tweet in cui li mando affanculo in modo più che pesante. Mi sale la rabbia che ho dentro per ciò che sta accadendo in città, per le stupidaggini che leggo e la cosa costerà il blocco del mio account il giorno seguente: un’accozzaglia di account fassisti ha fatto girare i miei tweet e segnalato il mio account che verrà bloccato.
L’invito che arriva martellante dalla TV è di non uscire di casa, io scalpito. Ora sembra di stare davvero in una situazione di coprifuoco. L’urlo delle sirene e il rumore delle pale degli elicotteri che girano nel cielo di Vienna è la colonna sonora. Decido di uscire di casa, di andare a dare un’occhiata, non riuscirò ad arrivare in centro questo lo so ma voglio andare. Mia moglie mi blocca malamente. Discutiamo. Resto a casa e seguo la cosa tramite internet. Sento un amico che mi dice di essere riuscito a tornare a casa in taxi ma hanno dovuto fare tutto il giro del Gürtel. Un altro che lavora in un ristorante in centro sta bene e mi scrive che sono tutti bloccati nel ristorante. Verremo poi a sapere che le persone che erano alla Staatsoper e al Konzerthaus sono rimaste lì al sicuro per ore e poi scortate dalla polizia fino alla metro dove li attendeva un treno che si è fermato apposta per loro. Il resto dei percorsi e le varie linee della metro non fermavano più in centro, superavano tutte le stazioni e oltrepassavano la Innere Stadt.
La notte di lunedì è fatta di dirette sulla ORF, lettura degli aggiornamenti dei quotidiani on line, sms e chat dall’Italia in cui ci chiedono come stiamo.
Ormai è chiaro che i morti sono due, ma non si capisce chi sia morto. I feriti non si sa bene quanti siano. Nelle dirette ci raccontano che un attentatore è stato “ausgeschaltet”, lo hanno spento. Come fosse un elettrodomestico. Qualcosa inizia a tornare. Lo hanno ucciso davanti alla Ruprechtskirche, la chiesa più vecchia di Vienna, e aspettano che arrivino gli artificeri per disinnescare la cintura di esplosivo che ha intorno alla vita. Si scoprirà poi che la cintura è senza esplosivo. Sono le due di notte, ripetono di restare a casa ma devo uscire coi cani, almeno questo. Prometto di fare solo un giro nei dintorni, cammino per strade deserte. Incrocio una volante della polizia che sfreccia lungo la Sechsauserstraße, passa un elicottero mi chiedo dov’è che va?
La notte è quasi insonne, sogno di essere al posto del tipo che urla stronzo all’attentatore e mi vedo mentre gli lancio addosso le piante che stanno sulla finestra e mi chiedo per che cazzo i vasi delle piante non siano più di cotto ma di plastica. Fa più male il cotto, la plastica è troppo leggera. Mi sveglio e di dormire se ne parlerà all’alba. Alle cinque mi arriva un messaggio del proprietario del locale dove lavoro, domani la pasticceria resterà chiusa. Mi pare il minimo.
Martedì 02.11
Da Twitter mi scrivono che stanno vagliando la situazione e che l’account resterà bloccato a meno che non dia loro il mio numero di telefono per l’autentificazione e una volta dentro non cancelli i tweet incriminati. Sì, in effetti mi rendo conto di essere stato troppo duro nel rispondere ai tweet dei fascisti, chi se non loro, eredi del cazzaro pelato, camerati di stragisti e assassini possono dire qualcosa su un attentato terroristico? Questione d’esperienza. E poi dovrei essere più gentile con gli italiani, come disse ieri pomeriggio – a me e al mio amico e collega del turno serale – un altro bel soggetto dall’accento romano. Non s’è forse reso conto, l’italiano, che gli è andata più che bene ad essere riuscito a uscire dal locale senza un occhio nero. Chiudo la mail e il mio account può restare così com’è, congelato in un grosso vaffanculo.
Resto a casa, non apro neppure i giornali per leggere qualche aggiornamento. Ma le notizie brutte arrivano comunque, una delle vittime è una ragazza che lavorava in uno dei tanti locali che stanno in zona. Faceva la cameriera anche lei. In un locale che in linea d’aria è a non più di 200 metri da dove lavoro. I luoghi dell’attacco sono lì intorno, uno è giusto nella “nostra” via, così mi dice il padrone del locale. Certo che è nostra la via, se ci lavori più di 40 ore a settimana in un posto poi diviene anche un po’ tuo. E fa male anche se ti è andata di lusso e la valanga di pallottole ti ha mancato di buoni 40 minuti. Ti è andata bene, lo sai e ringrazi l’universo intero.
Oggi inizia ufficialmente la seconda fase di lockdown, ma è partita già ieri.
Mercoledì 04.11
Mi decido, sta per fare buio e ha ripreso a fare freddo ma monto in bici e pedalo fino a Schwedenplatz. In giro c’è la solita atmosfera, ci sono persone che passeggiano, c’è chi fa un po’ di compere, c’è chi come me va in bicicletta e c’è più polizia del solito. Solo sulla Mariahilferstraße incrocio cinque volanti e un furgone della polizia. Davanti a un palazzo ci sono due poliziotti in giubbotto antiproiettile e fucile, guardano qualcosa su un cellulare. Passo oltre e supero il Museumsquartier e mi immetto nel Ring. Ripasso da Heldenplatz e raggiungo il Graben, anche qua c’è stata una sparatoria ma non vedo segni, c’è un furgone della Polizei fermo accanto al monumento al cardinale Borromeo, passo oltre e raggiungo il Salzgries, la “nostra” via. L’aria è pesante, triste. I negozi sono chiusi, passo davanti al locale e noto che una delle sedie del dehor è fuori posto, qualcuno si sarà seduto a riposare. Continuo a camminare, raggiungo la Marzinplatz, un trio di buskers suona musica peruviana, i clochard che di solito stazionano sulle panchine della piazza sono spariti, vedo che c’è tanta gente e ancora molta polizia. Mi avvicino e vedo il banchetto con i fiori e le candele, i cerchi per terra segnati in rosso davanti al ristorantino giapponese all’angolo con la Seitenstettengasse e vedo la porta a vetri con sette fori di proiettile. Sette fori precisi, puliti, il doppio vetro è rimasto su e i fori sono lì davanti ai nostri sguardi e alle fotocamere dei cellulari. Poco oltre davanti al fastfood ci sono fiori e candele intorno a un albero, due persone tengono in braccio una corona di fiori, c’è una ragazza che parla in un megafono che non amplifica granché la sua voce, le luci delle telecamere delle tv sono fredde e illuminano i ragazzi che strizzano gli occhi. Indossiamo tutte e tutti le mascherine, siamo all’aperto ma la massa di persone è impressionante e non è possibile mantenere nessun tipo di “distanza di sicurezza”. Torno indietro e imbocco la Seitenstettengasse, la via della sinagoga. Un amico mi aveva inviato ieri una foto di qualche anno fa scattata lì, anno in cui lui e sua moglie erano venuti a trovarci. Giorni felici. Nella foto le nostre compagne stanno passeggiando lungo la via, le ha fotografate di spalle, la via è vuota e c’è un bel sole. Subito dopo il primo palazzo sulla sinistra, all’angolo con l’edificio che ospita la sinagoga c’è un tappeto di fiori e candele, segni e numeri segnati sul selciato, una pozza di sangue, ancora fiori e candele. Sul muro i segni delle pallottole, qualcuno ha inserito nei fori dei boccioli di rosa. A terra lungo il muro dell’edificio altri punti con fiori e cartelli. Di fronte alla sinagoga, davanti all’ingresso di un pub, un prato di fiori e candele. Mi torna in mente un fotogramma di un video visto l’altra notte su internet, con l’uomo in bianco col fucile e una persona a terra, le immagini si sovrappongono, qualcosa torna. Continuo lungo la via e sbuco sulla Judengasse, nella piazzetta sulla mia sinistra vedo l’albero con le corone dei fiori posate ieri dal presidente della Repubblica e da non so chi altro. Tante persone in silenzio, altre con macchine fotografiche e cellulari, una persona fa il video di alcuni bambini – forse i suoi figli, sì saranno i suoi bambini – che posano a terra una candela e un biglietto fra i tanti che ricoprono il selciato. Sento una voce in italiano e vedo un tizio che ne dirige altri due per posizionare luci e telecamera. Mi allontano e vado verso la Ruprechtskirche, altri segni di pallottole sui muri e nel vetro di una finestra di un pub. Davanti all’ingresso c’è un altro tappeto di fiori e candele, biglietti, gente ferma, attonita. Ci sono ancora due tavolini con sopra posacenere, bicchieri, bottiglie e salse e stuzzichini abbandonati lì. I segni che s’è fermato il tempo a due sere fa, e si ha l’impressione di essere in una falda di passato, sentire il momento in cui qualcuno stava bevendo un bicchiere nell’aria tiepida di una bella serata a Vienna e un attimo dopo si scatena il finimondo. Esplode il muro sulla propria testa e i calcinacci volano insieme ai vetri di una finestra e si perdono i punti di riferimento e cielo e terra si scambiano di posto e qualcuno cade a terra e…
Non trovo il posto dove l’attentatore è stato “spento”, non vedo segni tramite i quali leggere la cosa, a meno che non sia uno dei tanti punti in cui i viennesi hanno posato fiori e candele. Torno indietro e ripercorro la Seitenstettengasse, passo per il Fleischmarkt e torno dove ho lasciato la bicicletta. Il freddo comincia a farsi sentire, sono intorpidito e cerco di trovare un senso in quello che è successo, in quello che sto facendo insieme a questa gente che percorre come me strade in cui è felice di non essere stata due sere fa. Fossi stato qua fra queste vie due sere fa, o nelle immediate vicinanze come spesso è accaduto nelle settimane e nei mesi scorsi quando in chiusura eravamo in due e le cose da fare sempre tante e la mezz’ora o l’ora di lavoro in più è da fare. Il finimondo ci sarebbe scoppiato a poche decine di metri e cosa avremmo fatto?
Monto in bici e rifaccio il percorso verso casa, ripercorro le strade che faccio da un po’ di anni ormai e comincio a considerarle anche un po’ mie, così come questa città. Così come è successo per le altre in cui ho vissuto, Vienna ho bisogno di percorrerla ancora e ancora. Di scoprirla, sotto la patina turistica che le hanno cucito addosso, di raccontarla. Questa città che ancora non ho compreso del tutto e che è comunque casa mia.