La prima bozza di questo post risale a marzo 2025, il mio libro Risto Reich era uscito da pochi giorni. A suo modo dialoga con la Tagessuppe – Il ginocchio del pasticcere, che avevo appena pubblicato. Il tema delle catene di comando e del nonnismo ritorna sempre e Risto Reich è un libro antimilitarista. Ho rimesso mano agli appunti che seguono nei mesi scorsi, ma non riuscivo a trovare la quadra giusta. Fra ieri e oggi credo di esserci riuscito. Quantomeno a raccordare le storie e – cosa importante – le fonti da cui avevo ricavato le storie stesse. Così chiunque può andare a leggersi gli articoli e farsi la propria idea. Molti articoli sono in tedesco, altri in inglese, per chi non ha dimestichezza con le lingue basta affidarsi a uno dei tanti traduttori online per avere un resoconto affidabile, più o meno. Per mettere insieme questo post ho usato una penna, alcuni fogli di carta, poi un computer e una connessione internet per cercare gli articoli e comporre il post sul mio sito. Nessun altro aggregatore di dati – presuntamente intelligente – è stato usato.
Uno dei ritornelli che si sentono più spesso fra le mura di ristoranti e pizzerie è “la ristorazione è così!”. E pare non ci sia nient’altro da dire: ritmi e orari di lavoro, dinamiche e relazioni sono fisse, canonizzate, indiscutibili. Tutto ciò da una parte indica uno stato di cose e una solida identità transnazionale, dall’altra implica un “prendere o lasciare” per chi vuole – o in molti casi non può far altro che – lavorare in una cucina professionale o in sala fra i tavoli. Quali sono i tratti fondamentali che caratterizzano questa “identità”? Ci arriverò dopo aver fatto una carrellata di casi “esemplari”, che hanno occupato le pagine di diversi giornali europei. Storie che – per quanto trattate con lo stile da scoop giornalistico – fanno un po’ da contraltare alla narrazione mainstream la quale – da riviste specializzate, programmi tv, serie televisive, blog e social network – racconta quanto sia affascinante il mondo della ristorazione.
Soprattutto quella che si definisce di “fine dining”, di lusso e certificata da stelle e stellette.
Nel dicembre del 2023, nei giorni in cui stavo finendo di scrivere Risto Reich, lessi la notizia di un episodio di nonnismo all’interno della cucina dell’esclusivo cinque stelle “Hotel du Palais” a Biaritz, guidata dall’allora trentunenne chef Aurèlien Largeau. La narrazione che circonda la cucina dell’”Hotel du Palais” – ma in generale tutti i ristoranti di lusso – è che lì si può fare una “magnifica esperienza e gustare la sofisticata cucina francese contemporanea”. Se ce la si può permettere, ovvio. Da quanto risulta leggendo i giornali un giovane Sous-Chef fu sottoposto, nella stessa cucina in cui preparano piatti da esperire a colpi di centinaia di euro, a un rito di iniziazione in cui fu legato nudo per ore a una sedia con una mela in bocca e una carota nell’ano. Così come si dilettano i militari torturatori dei vari eserciti di difesa che infestano questo mondo: dalla prigione di Abu Grahib, alla devastata striscia di Gaza in Palestina. Al sodo: fu girato un video dell’impresa e fu caricato in rete. Video e notizia vennero diffusi da social network e non poterono che finire sulle pagine dei giornali. Immediata la reazione della direzione che, per proteggere affari e immagine dell’Hotel, si apprestò a licenziare il giovane Chef e a diffondere comunicati in cui affermavano che giammai simili atteggiamenti vengono incoraggiati dalla direzione che ha a cuore la salute dei dipendenti e bla bla bla.
Resta poco credibile che la direzione di un cinque stelle non sappia quali sono le dinamiche che reggono la gerarchia di una cucina e i metodi per mantenerla viva ed efficiente. Ma facciamo finta che sia così e andiamo avanti. Il caso fu commentato anche da chef italiani, tutti hanno ammesso che sì magari in passato potevano accadere casi di violenze verbali e fisiche, ma mai da arrivare ai livelli del caso narrato dai giornali francesi. I tempi stanno cambiando, si dice, e giovani chef non accettano più dinamiche del genere: forse una volta accadevano cose del genere, oggi non più.
Si racconta che durante il servizio può capitare di alzare la voce, ma poi dopo si va tutti insieme a bere una birra, da amici. O, meglio ancora, da familiari: perché – dicono alcuni dei proprietari più “illuminati” – il ristorante “è come se fosse loro”, dei dipendenti addirittura. Chissà come se la vivono questi fortunati ad essere comandati a bacchetta, all’interno del “proprio” ristorante e chissà a quanto corrisponde la loro percentuale di proprietà del locale.
Ancor di più se si è donna, chissà che gioia a essere le protagoniste di pressione da parte dei machos con cui si deve lavorare. Durante la mia esperienza in ristoranti e pizzerie mi è capitato di assistere a scherzi più o meno “divertenti”, così come ad “approcci” più o meno pesanti da parte di maschi verso colleghe donne.
Non sarà certo la ristorazione ad avere il primato, ma il fatto che sia un mondo fortemente caratterizzato da un’alta presenza di maschi, soprattutto in posizione di potere, e di una forte gerarchia lo rende un luogo in cui dinamiche e abusi possono facilmente prendere piede.
A distanza di un anno torno a curiosare in rete alla ricerca di notizie e scopro che la procura che aveva aperto un fascicolo ha concluso le indagini e affermato che si è trattato di uno “scherzo fra amici”. Bell’amici, mi sono detto fra me. Il giovane chef di recente ha aperto un ristorante nel nord della Francia e posta foto dei suoi piatti sui social network. Anche lì, nel nuovo ristorante, si potranno di certo fare delle belle esperienze.
Pochi giorni fa, entrando in cucina per prendere dei piatti da portare a un tavolo, il cuoco mi chiede: hai sentito di quello che è successo da Filippou? E chi è?, chiedo. Lo Chef viennese che ha il ristorante due stelle Michelin…
Non ne so nulla e durante il servizio si riesce a scambiare solo poche parole. Il cuoco mi dice che è scoppiato un casino sui giornali. Una cosa grossa. Perché hanno scritto un articolo in cui raccontano dei turni pesanti, dello stress in cucina… ma si sa, mi dice lo chef, se vai a lavorare in un ristorante stellato la pressione è altissima. Va bene, capisco che la pressione possa essere altissima, ma ci sono dei limiti. Ci sono in ogni situazione, in ogni dinamica fra persone che condividono tempo e spazio, bisognerebbe conoscerli e soprattutto farli rispettare, penso fra me. Mica solo i territori hanno limiti
Finisco il turno di lavoro e inizio a curiosare in internet. Trovo l’articolo pubblicato su Wiener Zeitung: è documentato, chiaro e impietoso. Tralascio la parte in cui elencano le nove portate da trecento novanta euro, la truffa ai danni dei clienti a cui sono state rifilate le ostriche (o cozze?) “false”, le capesante giapponesi spacciate per le più costose capesante norvegesi, i prodotti surgelati spacciati per freschissimi. Se si vogliono le due o tre stelle Michelin – e quindi far pagare centinaia di euro una manciata di cibo – i prodotti devono essere di primissima qualità. Dopodiché per me il circo della rivista francese – e conseguente messa in scena classista – dovrebbe essere bandito, trovo indecente che esistano ristoranti in cui del cibo (sette, otto portate) costi tra i tre e i cinquecento euro a persona. E soprattutto trovo che il far leva sui desideri delle persone – chi non ama fare esperienze? – dovrebbe tornare a essere oggetto di analisi da parte di tutte e tutti. Non solo da parte degli analisti dei vari social network, che ne traggono profitto.
Anni addietro Gualtiero Marchesi aveva criticato il clima di sudditanza verso la rivista francese, lui ne faceva forse più un discorso di indipendenza e di orgoglio, resta che sia un fenomeno di sudditanza mentale piuttosto imbarazzante.
Arrivo al punto che più mi sta a cuore: i dipendenti che nella ristorazione diventano “famiglia”. Nell’articolo della Wiener Zeitung viene citata una dichiarazione dello chef Filippou in cui dice che “non c’è niente di più importante del personale”. Grazie al cazzo, si dice anche nei bassifondi della ristorazione viennese, perché altrimenti chi porta al tavolo le costosissime portate e intrattiene gli ospiti? Quindi sull’importanza strutturale del personale ci siamo, il problema è come viene trattato ogni benedetto giorno. Il Filippou si vanta(va) che nel suo locale i dipendenti sono felici e riescono ad avere una vita bilanciata fra ore di lavoro e ore per se stessi e la famiglia. Questo il racconto dello Chef, quello dei dipendenti è un altro: turni di diciotto ore, abusi verbali, pressione enorme, stress e conseguente burn out.
E non è l’unico caso:
curiosando in rete si può leggere quello di Christian Jürgens (tre stelle Michelin) che è stato accusato di aver abusato per anni dei dipendenti. Nell’articolo scrivono di minacce continue verso i dipendenti e di molestie sessuali. Il cuoco fu licenziato in tronco dalla proprietà del ristorante e ora “ha imparato dai propri errori“, almeno così dice. Dello stato di salute delle persone che hanno avuto il piacere di lavorare con lui, al momento, non ho trovato nulla.
Altro caso interessante ma un po’ meno recente, quello del Noma di Copenhagen: uno dei ristoranti più famosi al mondo, ora chiuso. Fondato e gestito dal cuoco Renè Redzepi (tre stelle Michelin) il Noma ha chiuso nel 2021 a seguito delle polemiche seguite alla scoperta che decine di persone componenti la brigata di cucina non riceveva lo stipendio.
Conosco persone che lavorano o hanno lavorato per ristoratori austriaci. Alcuni dicono siano “migliori”, altri che dappertutto è la stessa solfa. A prescindere dal livello del ristorante, che sia un Gasthaus o uno di livello più alto. Qualunque cosa ciò voglia dire. Ho avuto un collega che ad esempio mi disse che la “scuola Plachutta” a lui era servita molto ma che – ecco – preferiva non averci più tanto a che fare con quel metodo di lavoro, con quell’ambiente. La collega con cui lavoro ora mi dice: ma non sai niente di quello che successe anni fa? Mi incuriosisco e recupero la storia attraverso un articolo dell’ORF in cui raccontano delle condizioni di lavoro della catena di ristoranti di lusso fondati da Ewald Plachutta, ora gestita dal figlio Mario (e presto dal nipote Christoph). Di seguito i casi che hanno attirato l’attenzione della camera del lavoro: un cameriere fu licenziato in tronco per aver riso a voce alta; un altro dipendente perché in malattia, il licenziamento fatto passare come “amichevole” e la conseguente tassa fatta pagare dal dipendente stesso; persone assunte su base giornaliera, per risparmiare sulle assunzioni, anche se era stato concordato un lavoro regolare nei fine settimana. Il caso più eclatante però è quello del cameriere licenziato per aver usato 50g di zucchero per dolcificare delle fragole che aveva comprato altrove. Il proprietario della catena di ristoranti si è difeso scrivendo che il dipendente era stato licenziato per aver rovinato una confezione da mezzo kg di zucchero, presa senza chiedere il permesso. Alla fine del comunicato il Plachutta ci ha tenuto a far notare “che il dipendente in questione è un cittadino slovacco che viene in Austria solo temporaneamente per motivi di lavoro e ha il suo centro di vita e la sua residenza principale in Slovacchia. Ci sorprende che proprio questo gruppo di interesse, che denuncia il sistema in questo modo, sostenga queste persone e il loro massiccio comportamento scorretto”. Ne deduco che se il dipendente fosse stato di cittadinanza austriaca non sarebbe stato licenziato e tutto questo delirio non sarebbe accaduto.
Altro caso interessante da poco sotto i riflettori è quello dei locali Wirr e Adlerhof, definiti dai giornalisti “locali da hipster, dove si può mangiare pane e avocado con sottofondo di musica alla moda”. Ancora una inchiesta della Wiener Zeitung segnala aggressioni fisiche e insulti sessisti da parte dei due proprietari Andreas Knünz e Manuel Köpf ai danni dei e delle dipendenti. Una cameriera racconta di essere stata insultata da Knünz, il giorno in cui era andata al locale per riscuotere le mance. Dall’inchiesta emerge l’abitudine da parte dei due ad avere un atteggiamento prepotente e discriminatorio: pagando meno le donne rispetto ai colleghi uomini, versando regolarmente in ritardo gli stipendi, trattenendo le mance. Per non aver salutato l’uomo al suo ingresso in ufficio la ragazza fu chiamata “troia schifosa”. Risulta dall’inchiesta che i due proprietari hanno insultato ed anche aggredito fisicamente i dipendenti. In possesso della redazione dello Standard – altro giornale austriaco che ha seguito la vicenda – c’è un video in cui, raccontano, è registrata l’aggressione da parte dei due proprietari nei confronti di un ex cuoco a cui non avevano, tra l’altro, pagato lo stipendio.
Fra i miei appunti ho ancora due nomi, l’etichetta dice “gente discutibile”:
Il primo è lo chef pluripremiato Daniel Boulud che non solo aveva l’abitudine di controllare il lavoro in cucina anche attraverso il vetro del suo ufficio – situato in alto al di sopra del locale per poi indicare e „segnalare“ attraverso un puntatore laser le pietanze o le esecuzioni che non erano all’altezza dei suoi standard – ma dovette risarcire otto dipendenti che lo accusarono di discriminazione razziale in quanto “non bianchi”. Promozioni e aumenti venivano elargiti in base al colore della pelle e paese di provenienza.
il secondo è Julian Nicolini, co-proprietario del Four Season di New York, accusato di molestie sessuali da alcune lavoratrici del ristorante ammise le sue responsabilità e fu licenziato dal ristorante nel 2018, pur rimanendo socio di minoranza.
In questi anni di lavoro nella ristorazione ho incontrato persone che non temono la quantità di fatica a cui si devono sottoporre per lavorare in una cucina stellata o per raggiungere determinati risultati, amano ciò che fanno e lavorano duro ma – e qui sta la discriminante – nel momento in cui viene chiesto di fare sempre di più, oppure viene dato per scontato, sottopagato, sminuito ciò che già si sta facendo siamo su un piano diverso. E si chiama sfruttamento. Continuando a parlare di lavoro ricordo che al tempo del mio apprendistato teatrale passavo, per scelta, più ore in sala prove e a teatro che non altrove. Lavoravamo sette otto ore al giorno anche sei/sette giorni a settimana, oltre a studiare, dare esami. E i risultati arrivarono ma eravamo “capi di noi stessi”, nessuno ci dettava i tempi. In un ristorante stellato – in tutti gli esercizi commerciali – la tanto sbandierata dimensione di “uguaglianza” è impossibile, per questa ragione è necessario il riferimento alla famiglia, i cui ruoli e relative dinamiche di potere sono già introiettati da ognuna e ognuno di noi, affinché la gerarchia, le forzature, le urla possano venire accettate, o quanto meno tollerate.
Nessun posto di lavoro, in cui esista una struttura verticistica è o può mai diventare democratica. Basta fare una piccola ricerca sul tema del nonnismo per verificare che sia un fenomeno presente non solo negli eserciti, ma che caratterizza tutti i gruppi di persone organizzati. C’è un altro canto, un’altra narrazione delle dinamiche del lavoro sia in sala che in cucina, il problema è che spesso resta relegata fra le pagine dei reportage giornalistici. Fanno scalpore per qualche giorno fra i lettori, restano le tracce per qualche settimana nell’ambiente, ma niente cambia nel concreto delle dinamiche del lavoro. Passata la buriana in pochi ricordano cosa sia successo, mentre la narrazione dominante va avanti a colpi di serie tv sulla ristorazione e gare fra ego ipertrofici di buzzurri Chefs.
Al di là della narrazione che il capo di turno fa del proprio locale, non bisogna dimenticare che, per tutti e a qualsiasi livello, “la ristorazione è così”. Lo dicono loro.
Colonna sonora: Faith No More – The Gentle Art of Making Enemies
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