Tagessuppe – Incursione in gelateria
Nell’articolo in cui annunciavo l’uscita a gennaio 2025 di Risto-Reich, anticipavo anche che avrei pubblicato materiale che, per motivi diversi, non è rientrato nel corpus del romanzo. Scrissi infatti che hanno a che fare con la materia viva che compone il romanzo. Fanno quindi parte a pieno titolo del progetto. Quella che segue è una riflessione su mondo della gelateria. Buona lettura.
Ho avuto colleghi che hanno lavorato in alcune gelaterie della città. Gelaterie di proprietari diversi, in luoghi diversi, ma tutte con la stessa modalità di trattamento dei dipendenti. Stessa concezione dei rapporti umani, quasi come se ci fosse un’unica, questa sì internazionale, direttiva aziendale. Il meraviglioso Made in Italy, apprezzato in tutto il mondo.
I colleghi che mi hanno raccontato qualcosa sono tutti maschi e nei racconti sono tornate come ritornelli le “stagioni” fatte di settimane infernali con giornate da 14 ore di lavoro continuo, con i nastri delle ordinazioni che cadevano sul pavimento lunghi diversi metri. Molti avevano ricevuto vitto e alloggio per la durata della stagione e le giornate erano tutte uguali: adunata alle 7:30 in sala, colazione, poi dalle 8:00 alle 23 lavoro non stop tranne due pause per pranzo e cena di circa 15 minuti. Mi hanno raccontato che fino al 2016 nelle gelaterie della città vigeva l’usanza di concedere mezza giornata libera a settimana in cui il fortunato lavoratore poteva fare la lavatrice, un po’ di spesa, una passeggiata in centro, per poi tornare a lavorare fresco e riposato dalle 15 alle 23. Dal 2016 invece si è ottenuto un giorno libero a settimana, libero del tutto, ma da considerarsi un regalo, mica un diritto. Si trattava di una concessione, niente di più. Per il resto, giornate passate in piedi, con il padrone o la padrona a passare dietro il bancone a fare pressione per servire servire servire e non far aspettare nessun cliente: “Spallinate, spallinate, diocane!” L’attitudine richiesta di solito è quella di salutare con un buongiorno e servire immediatamente chi entra in gelateria. Per poi passare al prossimo cliente. “Veloce, veloce, vai vai vai”. Settanta/ottanta ore di lavoro a settimana passate in piedi con la schiena piegata sul banco del gelato per fare coni e coppette. Telecamere puntate sulla cassa, sul bancone, in sala e negli spogliatoi a controllare ciò che fanno i dipendenti. Anche quando si spogliano. Mi hanno raccontato di ragazze che si spogliavano nei bagni, per evitare lo sguardo di proprietario e figli pronti davanti ai monitor a inizio o fine turno.
Mi hanno raccontato che una delle battute preferite di uno dei proprietari di una gelateria alle dipendenti fosse “se ti piace duro te ne do finché scoppi”. Amici e colleghi mi hanno anche raccontato – con una punta di orgoglio per il lavoro fatto – di incassi da “diverse migliaia di euro, cifre con quattro zeri”, durante una di quelle giornate col bel sole estivo che riscalda le strade e i giardini di Vienna. Con il vento che soffia dal nord che arriva a rinfrescare. In quelle occasioni, neanche fosse una scena in bianco e nero da film degli anni Cinquanta del novecento, il padrone seduto dietro la cassa si accendeva un sigaro mentre contava i soldi, per quanto il divieto di fumare fosse attaccato ovunque nel locale. Mi hanno raccontato di mance sostanziose lasciate dai clienti fatte sparire in mezzo al resto dei soldi dell’incasso e mai distribuite. Mi hanno raccontato anche di un salvadanaio in terracotta dalla forma di un maiale, enorme, alto più di un metro, pieno di mance, che di fatto intascava il proprietario. Mi hanno raccontato di uffici addobbati con busti del coglione di Predappio, e paccottiglia nazifascista fra cui anche bottiglie di vino sia col faccione del crapone che con quello dell’impasticcato austriaco a sbraitare sopra foreste di braccia tese e bla bla bla. Da farci un sol fascio, diceva la canzone, e poi le brucerem. Mi hanno raccontato di feste, all’interno delle gelaterie, con champagne e prostitute, lunghe una notte intera, con i resti della festa e le impronte di culi stampati sulla vetrina, ancora lì la mattina all’apertura del locale. Mi hanno raccontato un po’ di cose, i colleghi, mi hanno detto che il lavoro stagionale in gelateria spesso attrae persone che non hanno altra scelta per guadagnarsi uno stipendio. Questa cosa è vera per la ristorazione in generale, ma pare che per la gelateria valga di più. Così mi dicono. Perché si impara in fretta a fare un cono e consegnarlo, stai in piedi tutto il giorno ma almeno 1500€ al mese li intaschi, se ti va bene hai anche vitto e alloggio. In confronto al niente, di guadagno e prospettiva, che spesso si è lasciato in Italia sembra più che buono. Certo, lavori fino allo sfinimento e mangi quello che ti fanno trovare, non puoi scegliere, non puoi farti la spesa perché non hai l’uso della cucina e quindi mangi spesso Kebab, ma almeno mangi. Messa così sembra di aver scelto il meno peggio. Ma si sa che la scelta al ribasso – fra padella e brace – è una finta scelta. Comunque, c’è la speranza di prendere i soldi a fine mese, forse non tutto lo stipendio, ma due soldi li si guadagna, se si resiste fino a fine stagione. Perché – raccontano i colleghi fra una risata e una bestemmia – è già successo che, dopo aver preso lo stipendio, qualcuno nottetempo abbia fatto la valigia e sia corso in stazione a prendere il notturno dell’ÖBB per tornarsene in Italia e vaffanculo alla gelateria e al lavoro. Che se li servisse il padrone, le file di clienti con bambini urlanti al seguito per quattordici ore al giorno sei giorni alla settimana. Vai a spallinare tu, se ce la fai, diocane. E così, dopo un po’ di evasioni, alcuni padroni decisero di legare il lavoratore al luogo di lavoro trattenendo parte dello stipendio, da consegnarsi a fine stagione. Ma anche questa trovata del tutto illegale non impedì le evasioni, in molti preferirono perdere soldi piuttosto che continuare a lavorare in quelle condizioni. Certo, avrebbero potuto rivolgersi alla Arbeiterkammer, la camera dei lavoratori, ma intanto devi conoscere i tuoi diritti per poterli difendere e poi conoscere la lingua del posto dove lavori. Mica facile, riuscire a mettere insieme tutte queste cose in un colpo solo.
Ad ogni modo, ora, mi raccontano, lo stipendio non viene più trattenuto. Ma le ore di lavoro e le dinamiche sono cambiate poco. Alla fine, resta il luogo in cui ci si vanta di aver “fatto i miliardi vendendo ghiaccio ai viennesi”.
Mi si avvicina il Pittbull, mi chiede se voglio cambiare lavoro. Mandare affangul Cip e Ciop e andare a lavorare insieme in una gelateria d‘unamicosuo. Lavorare in gelateria, quindi. Sì, dico, facciamo che ci penso su. Ci penso, dai, davvero, eh.