Appunti su #108 metri e la costruzione di un immaginario working class

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I don’t mind stealing bread
From the mouths of decadence
But I can’t feed on the powerless
When my cup’s already overfilled

But it’s on the table, the fire is cooking
And They’re farming babies
While the slave are working
The blood is on the table
And their mouths are choking
But I’m going hungry.
Yes, I’m.

Hunger Strike – Temple of the Dog

Ho letto 108 metri. The new working class hero in pochi giorni. Il libro è un ibrido narrativo. Un testo che affonda le radici nell’esperienza diretta di Alberto Prunetti e che ci restituisce una storia scritta – come dice Wu Ming 1 – con ogni mezzo necessario. Questo si sente. I personaggi, per quanto alcuni possano essere stati inventati e/o necessariamente caratterizzati ai fini della tenuta narrativa, hanno alle spalle la sostanza di una o più persone con cui Alberto ha condiviso ore di vita e lavoro nelle cucine del Dorset e nei cessi di Bristol. Così già dopo pochissime pagine ho sentito di star camminando, insieme al narratore, all’interno di un mondo che conosco fin troppo bene. Mi sono ritrovato in ogni pagina, con emozione e rabbia.

Come il protagonista di 108 metri anch’io lavoro nella ristorazione, in sala per la precisione. A lungo ho avuto contratti pessimi, senza copertura assicurativa e sanitaria, senza diritto a tredicesima, disoccupazione, ferie. Lavoravo anche quaranta ore alla settimana ma in busta paga ne risultavano dieci. Rimandavano di mese in mese il passaggio a quaranta ore, mesi di incazzature sterili e stipendio in nero.
Non sono più un ragazzo, non ho l’età del protagonista del romanzo di Alberto ma, per quanto possa essere stato diverso il mio percorso di giovane laureato che per mantenersi deve fare diversi lavori, alla fine l’ambiente che ho attraversato è lo stesso che attraversa il protagonista del libro.

Da due anni vivo e lavoro in Austria, dove sono emigrato in cerca di lavoro. Lavoravo a teatro, rispondo quando mi chiedono cosa facessi prima. Per quanto, quello teatrale, sia un lavoro che non ho mai smesso di fare. Per me entrare nella sala di un ristorante e entrare in scena sono la stessa cosa, forse è grazie a questo approccio che ho imparato a saper fare (bene o male) il lavoro che sto facendo. Mentendo, facendo finta, recito da due anni lo stesso ruolo. Traccio le mie linee di movimento rispettando le pause, variando il ritmo, pulendo i gesti, la direzione dello sguardo e del corpo. Che ne dici Nikolaj? E tu, compagno Vsevolod? Che ne dite, Maestri?

Leggere in questo periodo 108 metri, per chi sa di far parte – nonostante la laurea, il master, le lingue straniere, il dottorato – della classe operaia è – mi viene da dire – tornare a casa. Rientrare in un immaginario che riconosci, riuscire a vedere le linee del paesaggio in cui ti stai muovendo. Un territorio che ha le sue regole, e per regole intendo quelle che Renato trasmette al figlio, regole semplici che fanno comunità, che creano linee di condotta, di stile. Creano un’etica. Perché c’è differenza tra fare il crumiro e scegliere di non farlo, tra leccare il culo al padrone e scegliere di no, tra fare la spia e restare dalla parte del collega, tra essere solidali e pensare solo per sé. Scrivo ad Alberto che le regole di Renato sono come le armi che gli Elfi consegnano ai membri della Compagnia dell’anello. Lui mi risponde dicendo che spesso durante le presentazioni del libro dice che per lui sono come il pane elfico che sostiene il viaggio della compagnia verso Mordor e il monte Fato. Siamo lì, mi scrive. Sì che siamo lì, e con Tolkien un altro mostro sacro della letteratura entra in scena. Oltre a Stevenson, Lovecraft, Loach…
Il libro è percorso da una serie di stralli letterari che tengono la struttura della narrazione, l’intreccio working class. È l’intreccio stesso – e questa è per me la grande forza del libro – a essere working class.

Nel 2016 ho attraversato le Alpi più volte in pochi giorni a causa del trasloco. La prima volta supero il confine seduto in un vagone delle ÖBB con accanto i miei cani. Dieci ore di viaggio, in un treno lanciato verso le Alpi (magari viaggiando sopra i binari prodotti dalla Italsider di Piombino, levigati e curati da Quattr’etti e soci; chissà?) con i cani che iniziano ad abbaiare al passaggio degli agenti di frontiera che controllano i documenti. Come nella scena in cui i Dissennatori entrano nel treno diretto a Hogwarts alla ricerca di Sirius Black, un vento gelido si insinuò oltre la piccola porta dello scompartimento. Il mio Sirius iniziò a ringhiare, Gea a ululare, fino all’allontanamento delle guardie.
Certe cose i miei cani le avvertono subito, sentono l’ostilità. Ricordo che hanno sempre trattenuto la padrona di casa sulla soglia dell’abitazione, quando vivevamo a Torino. Intelligenti e sensibili i miei cani.
Sono stato fermato due volte dalla polizia di frontiera. La prima volta è la polizia italiana a Villach, guido un furgone Ducato Maxi pieno come un uovo diretto a Vienna. L’agente mi dice che ho superato il peso consentito e che devo svuotare il furgone. Cosa evidentemente falsa, le ruote erano visibili per intero. Rispondo che non ci penso proprio a svuotare il furgone. Apro gli sportelli e indico l’armadio, la lavatrice, il frigo, il letto smontato per bene, il materasso e il resto delle scatole che contengono libri, stoviglie, posate, coperte, lenzuola, cuscini…
Va bene, va bene, dice il poliziotto.
Non c’è posto per clandestini stipati illegalmente, dico.
Mi guardano storto e trattengono i miei documenti per quaranta minuti, poi mi lasciano andare.
La seconda volta mi ferma la polizia austriaca, avevo consegnato il furgone a Padova e stavo rientrando in Austria in treno. Al confine prelevano il ragazzo eritreo che stava seduto di fronte a me, aveva solo un biglietto di andata da Milano verso Monaco, niente documenti tranne il foglio di via dall’Italia. Dico che vuole solo transitare, che ha il biglietto ed è diretto a Monaco. Lasciatelo viaggiare, dico. Fatevi i cazzi vostri. Chiedono anche i miei di documenti, visto che rompo i coglioni. Ma io sono bianco e resto sul treno diretto in Austria, il ragazzo nero viene rimandato indietro. Chissà dove.

Lavoro nella ristorazione, dicevo. Ho imparato a fare il commis de rang, poi il barista, per poi passare a chef de rang. Ho scalato la gerarchia della brigata di sala. Ho lavorato in ristoranti italiani gestiti da italiani, austriaci, italo-ungheresi-austriaci. Ho avuto conferma, vivendo nel centro di questa Europa blindata, che per i quattrinai la nazionalità importa zero, le differenze linguistiche fanno parte della superficialità delle cose, folklore. I padroni hanno in comune il culto di Cthulhu. Stessi riti, suoni, odori. La loro religione è fatta di riti che ritrovate descritti in 108 metri, riti pubblici a cui ormai siamo tutti più o meno abituati, altri privati, da iniziati. Riti che il narratore riesce a spiare quando si ritrova casualmente ad assistere per un momento prima di crollare esausto davanti alla scena.
I padroni, dicevo, quelli che ti squadrano per decidere sul momento quanto ti possono spremere e pagare, che mettono da parte il curriculum che gli porgi dicendo: amme nun me ne fott nente ’e sta cosa, quanti piatti porti? Che parcheggiano la moto due cilindri, il Mercedes, l’Audi vestiti come i manichini delle vetrine dei negozi alla moda, con addosso scarpe da quattrocento euro per poi licenziarti se dopo Natale la clientela diminuisce. Che si definiscono ancora ragazzi, o – con quanta consapevole autoironia? – terroni appena sbarcati in Austria seguendo una rotta ricavata dall’uso di bussola e sestante. Ma, al netto di ogni speculazione, la loro condotta è accomunabile a quella di Jeremiah Jones e delle loro locande, per atmosfera e vibrazioni, molto più simili all’Oca Rossa di Castlerough che non al Puledro impennato di Brea.

Questa è una grande famiglia; dicono durante i colloqui.
Nein, danke. Ho già la mia; è meglio rispondere tenendosi col culo al muro.

Un giorno ci fu un incidente in cucina, come ne accadono tanti spesso mortali sui luoghi di lavoro, non ricordo cosa cadde su un piccolo lavandino provocandone la rottura e conseguente caduta sul piede del ragazzo che lavava i piatti. Ricordo l’urlo, i salti fino in sala, la scarpa e la pelle squarciate dalla ceramica, la carne pulsante e il sangue rosso che colava giù allargandosi sul pavimento. Ricordo la paura del ragazzo, innanzitutto d’essere licenziato, che continuava a scusarsi. Ricordo lo sguardo del direttore, preoccupato di ricevere dei controlli per la cucina fuori norma e l’assunzione in nero. Ricordo che lo accompagnarono al pronto soccorso, dopo essersi assicurati che il ragazzo dicesse d’essersi fatto male in casa. Perché siamo una famiglia.

Ho lavorato con camerieri, baristi e cuochi italiani, ungheresi, albanesi, kosovari, austriaci, algerini, marocchini, dominicani, egiziani. Molte persone di gran cuore, altri conclamati pezzi di merda, con borghesi decaduti, con poveri arricchiti e leccaculo del padrone, sessisti, razzisti. Sì, purtroppo sì, è assurdo che immigrati disprezzino altri immigrati ma è così. Ho lavorato con chi tira coca da anni per resistere allo stress del lavoro, con chi si sfonda di birra o vino a fine servizio – dio can dammene un altro, e riempilo il bicchiere porcodio –, con chi si fuma una canna ogni due ore e con chi non tocca altro che acqua, perché altrimenti qua prendo a calci in culo i clienti, uno m’ha detto che in Austria si deve parlare tedesco.
In soli due anni ho incontrato un’umanità così varia e stramba che mi meraviglia per ricchezza di accostamenti. Punto in comune fra le brigate di sala e quelle di cucina? La condizione sociale: nella ristorazione prendono tutti i poveracci, mi disse un giorno un collega. E c’è chi vuole solo prendere uno stipendio e magari cambiare lavoro, c’è chi vuole far soldi per aprire il proprio ristorante e diventare boss. C’è chi tira avanti giorno per giorno, anche se non ce la fa più e non riesce a staccarsi dal ristorante. Perché questo lavoro (cameriere, barista, cuoco, pizzaiolo), questa cosa logorante, è tutto ciò che sa fare, e cambiare vorrebbe solo dire cambiare ristorante. Ma la sostanza, alla fin fine, resterebbe quella. Chiamatela un po’ come vi pare, resta quello che è: sfruttamento.

Mio fratello è figlio unico / deriso, sfruttato, malpagato / figlio e fratello…

Tutto ciò, dicevo, l’ho ritrovato nelle pagine di 108 metri.
Un libro, questo, che è un gioiello di costruzione artigiana, un sapiente accostamento di scene, ambientazione e personaggi, un libro che ti fa sentire di avere a che fare – a dispetto di quanto c’è scritto nelle avvertenze e cioè che “ogni riferimento a fatti realmente avvenuti o a persone realmente vissute è da ritenersi puramente casuale” – con materia viva. Vita, cazzotti, fatica e lavoro che entra. Ché dietro ogni situazione, scena, personaggio, c’è la realtà vissuta, i ritmi allucinanti del lavoro in cucina, o in sala, o dietro al bancone di una pizzeria, di un bar. Lavoro che può durare ben oltre le otto ore e arrivare a dieci, tredici, senza pausa, per poi tornare a casa a notte fonda con la metro chiusa e i notturni da rincorrere lungo le strade di una qualunque città europea devota al turismo di massa.

A lettura terminata cado in un sonno agitato. Premonitore. Sono in un ristorante che non conosco. So di essere a Vienna. Non ho il grembiule, indosso un completo in giacca e cravatta. Ho il telefono in una mano e il direttore mi passa una cartella con dei fogli. Ho un sacco di cose da fare, intrattenere i clienti, consigliare i piatti e in più, mi dice, «Devi fav covveve chef de vangs e commis. Pevchè bisogna esseve duvi e comandave. Mi Spiego? Che noi, mettiamo su questa cosa, la vedi? Cominci a vedevla? Ecco, guavda come cvesce, la senti la vibvazione? Eh? E poi c’è da favla funzionave, mi spiego? Come si dice? Dai, aiutami… ecco sì, con sevevità. Bisogna difendevlo a spada tvatta, e poi vedvai che affavi che favemo, e che fiche che favò avvivave. Soldi, fiche e lavovo. Che bisogna diventave padvoni, esseve dei signovi. Chi se ne fotte di questi quattvo pezzenti. Noi pensiamo solo a noi stessi e basta. Eh? Mi spiego?».
Mi guardo intorno e dico no e in testa – come un mantra – iniziano a risuonare le raccomandazioni di Renato al su’ figliolo. Regole che valgono in tutto il mondo e non fa il crumiro, sciopera, non leccà il culo al capo, diffida dei quattrinai, se uno studiato ti chiama signore mettiti col culo al muro, non fà il crumiro, non leccà il culo, diffida… E un ronzio riempie l’aria e uno sciame d’api enorme, mai vista una nuvola di insetti così compatta, ronzante e incazzata, entra dalle porte spalancate sull’estate viennese e si abbatte su tavoli, menage, posate, spazza via la farina, sfonda la porta a vetri della cucina e si inoltra lungo il corridoio che porta all’ufficio in cima alle scalette e un urlo sovrumano, un urlo di terrore irrompe e il ristorante svanisce. Restiamo solo noi intontiti, il direttore giace a terra svenuto, esco nell’aria che sa di cavalli e carrozze e il sogno svanisce.

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