Appunti su “Chav” di D. Hunter, un romanzo working class
Ho iniziato a leggere Chav due giorni fa in tarda mattinata e l’ho finito ieri pomeriggio. Lo avrei finito anche in meno tempo, se non avessi avuto altro da fare, e il motivo è questo: avevo bisogno di leggere una storia così: diretta, potente, vera. Perché in un periodo come questo una storia in cui il tema portante è la “solidarietà coatta” ci spinge a rivedere le nostre posizioni rispetto alla nostra classe sociale, alle persone che ne fanno parte; anche rispetto a noi stessi, se siamo “maschi bianchi eterosessuali a piede libero”, e analizzare ciò che stiamo facendo: combattiamo lo stato di cose o siamo passati dall’altra parte della barricata?
“Chav” è tremendo non solo per ciò che racconta ma perché D. Hunter si assume la responsabilità di essere un maschio bianco. Scrive che è consapevole di essere riuscito a superare momenti difficili e dolorosi grazie a questo privilegio. “Immaginate se fossi passato attraverso queste esperienze ma da donna”, scrive a un certo punto. E nel libro questa riflessione sui generi, sulle relazioni di potere è continuo. Per quanto mi possa ritenere una persona che lavora per disattivare il proprio maschilismo, credo di avere ancora molto da imparare. E questa cosa D. Hunter me l’ha sbattuto in faccia con la forza di un pugno.
Aspettavo dunque la busta dei libri ordinati da Alegre, li aspettavo tutti in blocco ma dopo aver letto il post con la presentazione di Wu Ming 4 e – ancora prima – aver ascoltato la presentazione in video di Alberto Prunetti non vedevo l’ora di leggere “Chav”. Perché entrambe le presentazioni tirano in ballo un altro autore e un altro libro: I quaderni dal carcere di Gramsci; e qualcosa in me è scattato. Da bambino lessi Le lettere dal carcere – avrò avuto una decina d’anni, forse undici non di più – lo ricordo molto bene perché fu uno dei periodi più difficili, economicamente parlando, della mia famiglia. Ricordo le due stanze in cui vivevamo e tutto il resto. Ce ne sono stati tanti altri momenti difficili, ma quello fu il primo vissuto con coscienza. E leggevo quel libro che avevo ricevuto comprando una copia de L’Unità, era un libro dalla copertina bianca. Rimasi impressionato da quelle lettere, molte parti erano oscure, ma il tornare continuamente ai libri fu una delle cose che mi colpì di più. Mi dicevo: questo sta in carcere e si preoccupa dei libri, quindi c’è qualcosa di importante nei libri. Sia in quei libri elencati che nel libro che tenevo in mano. Perché mi era evidente che non stessi capendo tutto ciò che c’era scritto nelle lettere. E questa cosa mi dava forza, in non so che modo, quel “qualcosa” lo volevo scoprire. E così leggevo anch’io. Questo è il poco che ricordo di quelle letture ma lo ricordo con forza a distanza di più di trent’anni. E quindi ritrovare Gramsci citato in un libro working class di uno scrittore inglese mi ha ha riportato a quei momenti lì.
Durante la lettura mi sono tornate in mente scene dai libri di E. Bunker: stessa rabbia verso il sistema e le istituzioni, gli adulti, stesso orgoglio di emarginato che difende la propria visione del mondo (che è una visione di classe), stessa forza per uscire fuori da circoli autodistruttivi (studiare e iniziare a scrivere) senza saltare la barricata e diventare dei borghesi. La cosa che ho apprezzato tantissimo durante la lettura è il linguaggio, il riuscire a passare da un linguaggio alto a uno basso da strada, senza spostare il punto di vista, sempre “working class”. Un linguaggio orgoglioso d’essere espressione diretta della classe lavoratrice, di chi ha sempre saputo (indipendentemente se ha studiato o meno) da che parte della barricata sta e ora te lo racconta. Credo che ci sia di sicuro da tenere in considerazione tutto il lavoro fatto in fase di traduzione, nel tenere questo punto ben fermo.