Torino – Firenze A/R [ prima pagina del racconto pubblicato su Lo straniero]

L’impressione che ho è che le città inizino ad assomigliarsi un po’ tutte, a partire dalle stazioni ferroviarie. Sarà forse perché una volta scesi dal treno ci si ritrova davanti bar, negozi e librerie che fanno parte di catene commerciali. Stessi marchi, stesse vetrine, stessi prodotti un po’ ovunque.
La tendenza è verso un modello commerciale che rende i centri delle città interscambiabili tra loro, nella sostanza.

La stazione di Porta Nuova a Torino si sta piegando lentamente, mese dopo mese, al diktat di diventare un centro commerciale da cui partono, quasi per abitudine, alcuni treni. Nei prossimi anni l’alta velocità verrà dirottata totalmente sulla nuova stazione di Porta Susa (all’ombra del grattacielo San Paolo) che, a differenza di Porta Nuova, non è una stazione di testa ma di passaggio, appunto. In stazione non si arriva più, al massimo si transita, come i treni, e bisogna farlo nel modo più veloce possibile, magari consumare caffè e brioche e prendere un giornale e poi via, fuori, a chiamare un taxi o saltare al volo su un’auto amica parcheggiata in divieto perché non ci sono parcheggi, non ci sono sale d’aspetto, da queste parti si transita e basta.
Compri qualcosa e vai via.
Marsch.

Verso Firenze.
Prendo la metropolitana torinese in Corso Marche e scendo alla fermata di Porta Nuova. Chissà perché mi colpisce ogni volta notare che ogni fermata della metro è uguale alla precedente e alla successiva, tutto uguale, tranne il nome. È così per ogni metropolitana del mondo, immagino, ma questa di Torino mi colpisce di più. È il sempre uguale che torna.
Arriva la mia fermata dopo una curva ampia, lunga, sotto la superficie di Torino. Prendo le scale mobili per raggiungere i binari della nuova “stazione da vivere”. La volta del salone d’accesso è invasa dalle impalcature, stanno rimodernando per darci la possibilità di vivere una nuova esperienza per il nostro shopping targato Expo2015.
I corridoi in direzione dei binari sono pieni di persone che vanno e vengono, sulle panchine un po’ di umanità notturna che lentamente apre gli occhi al nuovo giorno, si vede che alcuni di loro hanno passato la notte a dormire all’esterno dell’edificio. Oppure in giro, vai un po’ a sapere dove. Stanno lì e si guardano intorno, qualcuno legge un giornale.
Raggiungo i binari, sono in anticipo di circa mezz’ora e non è ancora stato assegnato nessun binario al treno AV 355… Torino Porta Nuova – Roma Centrale delle ore 8:30 che fermerà a Milano, Reggio Emilia, Bologna, Firenze, Roma.
Assegnano il binario al treno, seduto su una panchina rifletto sul senso di questo viaggio, sulla presentazione (del libro? Mia? Di cosa?), sulle tracce che lascio in giro e a ciò che raccontano. Raggiungo il binario sovrappensiero, un tipo con un borsello e una casacca rossa mi ferma, lo guardo senza capire.
– Biglietto signore!
Sulla casacca ha un distintivo con su scritto “sicurezza aziendale”.
– Prego?
– Il suo biglietto.
– Perché qua?
– Sono le nuove regole.
– Ecco il biglietto.
– Buon viaggio.
– Verrà ricontrollato a bordo?
– Sì.
– E che senso ha tutto ciò?
– Sicurezza.
– Di chi?

Alla fine è uno che sta lavorando, mi dico, vai avanti e non rompere il cazzo già di prima mattina. Però: che senso ha? Volessi salire su un treno di straforo non lo farei mica dall’accesso principale al binario. E se qualcuno volesse accompagnarmi fino alla carrozza potrebbe farlo?

Raggiungo la carrozza e il posto che mi hanno assegnato e mi immergo nella lettura de L’erba delle notti di Patrick Modiano, di tanto in tanto guardo fuori dal finestrino il paesaggio. Una leggera inquietudine non mi lascia viaggiare tranquillo.
La stazione di Milano Porta Garibaldi è semideserta, pochi passeggeri e i manifesti che danno il benvenuto ai visitatori dell’Expo2015 con slogan entusiasti e ottimisti sono proporzionalmente superiori ai visitatori. Occupano lo sguardo, lì fermi ad aspettare chi potrebbe arrivare.

E: Andiamocene.
V: Non si può.
E: Perché?
V: Stiamo aspettando Godot.
E: Sei sicuro che sia qui?
V: Cosa?
E: Che lo dobbiamo aspettare.

Il ritmo del treno mi culla, il paesaggio sfreccia al di là del finestrino a oltre 200km/h, per andare dove? Alberi si infrangono contro il vetro. Urla, polvere e vento freddo addosso, voci urlanti e il volto bagnato dalle lacrime, a quasi quarant’anni pesano ancora di più. Non si piange a questa età. Una vergogna che non si può dire. Il mondo si rovescia al ritmo di una batteria, l’incedere di un basso elettrico, una chitarra elettrica che traccia la melodia e una voce riempie lo spazio intessendo parole e suoni che rimbalzano fra sedili divelti e braccia impazzite. Guardo il mio mondo diventare nero. Lacrime ovunque, lacrime e sangue di ritorno da un paese devastato e vile. La testa crolla giù e la sensazione di vuoto mi fa aprire gli occhi su un corridoio sgombro. Il mio vicino mi guarda. Avrò dormito? Eppure non ho sognato.

[…]

[il resto lo trovate sulle pagine de Lo straniero (num. 184) insieme a materiale letterario di alto livello, e questo non può che farmi piacere. Buona lettura. http://lostraniero.net/ottobre-184 ]

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