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Torino – Firenze A/R [ prima pagina del racconto pubblicato su Lo straniero]

L’impressione che ho è che le città inizino ad assomigliarsi un po’ tutte, a partire dalle stazioni ferroviarie. Sarà forse perché una volta scesi dal treno ci si ritrova davanti bar, negozi e librerie che fanno parte di catene commerciali. Stessi marchi, stesse vetrine, stessi prodotti un po’ ovunque.
La tendenza è verso un modello commerciale che rende i centri delle città interscambiabili tra loro, nella sostanza.

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Appunti su Zagreb

Ho letto Zagreb in meno di due ore. Due intense immersioni nell’orrore evocato dalla scrittura asciutta ed essenziale di Arturo Robertazzi. L’ho letto all’aria aperta, in due giorni distinti, ho diluito nel tempo e nello spazio intorno a me l’intensità delle immagini, per non stramazzare a terra come un sacco svuotato. Non ci sono fronzoli, né espedienti narrativi ad alleggerire la tensione, non c’è colpo di scena risolutore, non c’è niente che renda simpatico un dettaglio, un personaggio, non c’è niente di bello in questa storia, per un semplice motivo: perché la guerra è sporca, è una ferita piena di pus, e puzza terribilmente.

E a tutto questo si accede già dalle prime righe: “Quel mattino era un bel mattino, facemmo fuori quattro persone.” Poche parole che ci fanno precipitare nel teatro di una guerra che evoca altre guerre, compresa quella che ha lacerato l’ex Jugoslavia. Così simile alle tante che ci sono state e sono ancora in corso.
Zagreb non è una lettura che pacifica, non è consolatoria ed è giusto che sia così. Ha il pregio di evocare l’orrore.

Ho provato far entrare in risonanza il romanzo con il monologo finale del colonnello Kurtz di Apocalypse Now:
“E’ impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sannno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna farsi amico l’orrore. Orrore. Terrore morale e orrore sono i tuoi amici, ma se non lo sono essi sono nemici da temere. Sono veri nemici.”

Il protagonista di Zagreb è un dispensatore di orrore: si occupa dei prigionieri, assiste e contribuiscce alla loro disumanizzazione. La massa dei prigionieri è per lui “un’unica Bestia terrorizzata”, Il terrore morale e l’orrore sono suoi amici.
Il suo arruolamento fra le file della Grande Nazione è avvenuto per reazione: subisce l’orrore, diventa un dispensatore di morte che “uccide senza emozione, senza passione, senza discernimento” (dal monologo di Kurtz) perfettamente inserito in un meccanismo di trasmissione ed esecuzione di ordini semplici e spietati.

Robertazzi in Zagreb preme molto sulla distinzione ossessiva del Noi Vs Loro, l’intera guerra è basata su questo e non ha importanza se “loro” vuol dire la mia fidanzata, il mio migliore amico, il mio vicino. Loro sono i nemici, loro adesso sono più deboli e bisogna approfittarne. Ora bisogna farli fuori e non c’è tempo o spazio per altro. Per niente altro. Lentamente, soprattutto grazie a un incontro inaspettato, il protagonista comincia a non vedere più una massa indistinta ma corpi sofferenti.

Compie delle scelte e giudica le proprie azioni e quelle dei propri compagni fino ad arrivare a un grado di consapevolezza tale da dire: “la realtà tornò faticosamente a prendere forma. E fu allora che vidi per la prima volta la muffa che decorava ogni angolo del corridoio, (…) il sangue incrostato alle pareti (…) Per la prima volta tutto arrivò chiaro ai miei occhi. La guerra. L’orrore. La Base.” Sceglie di non uccidere più e la presa di coscienza è una condanna, implica il tradimento, la perdita dell’identità.

Il romanzo si chiude con lo scoppio di una bomba sulla Base, sulla fabbrica trasformata in lager, e il protagonista si sveglia fra i calcinacci e i corpi dei compagni. E’ un sopravvissuto e questo nuovo status basta forse per ricominciare, per testimoniare, per dire con Kurtz: “E voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo, non voglio mai dimenticarlo.”

qui l’intervista ad Arturo Robertazzi fatta da Angelo Ricci e nella sezione Zagreb la storia dietro i materiali, raccolti durante la stesura del romanzo, sul conflitto nella ex_Jugoslavia e messi a disposizione in rete.

Nel nome di Ishmael di G. Genna

Ho letto Nel nome di Ishmael prevalentemente di notte, per circa una settimana o poco più, l’ho finito stasera (28 agosto ’10). Qualcosa mi ha imposto il rito della lettura notturna, mi piace lavorare di notte, scrivere, di solito invece leggo ovunque posso, quando posso. Questa volta è stato diverso. E’ stata una lotta, me ne rendo conto ora che mi vengono in mente alcuni passaggi del libro che entrano in risonanza con Dies Irae;

Fondamentalmente una lotta con la materia narrata, una lotta fisicamente spossante a fianco dei personaggi. Ogni capitolo un round più o meno duro, uno scambio di colpi serrato in cui se non si dosano le forze si resta senza fiato con la guardia abbassata, in balia dell’avversario, e il tappeto si avvicina. Per me è stato un po’ così. E chi è l’avversario?
E’ la Storia ufficiale, monolitica e opaca che torna su come un conato di vomito, insieme alla sensazione che davvero sia andato tutto in modo diverso da come lo raccontarono allora, e quindi anche ora le cose non vanno per come le scrivono sui giornali e poi le scriveranno sui libri di Storia. E perciò leggendo, lottando, nascono connessioni fra storie inventate, giocando su eventi e persone reali, e le parti sfrangiate dei tassellli degli eventi tramandati e vedi che il mosaico alla fine è diverso da quello che si trova fra le pagine della Storia ufficiale. E se si ha coscienza e attenzione, il gioco diventa divertente anche se i cazzotti arrivano giù pesanti, come durante una sessione si allenamento con un maestro esigente e navigato. E Genna ha una scrittura densa, con squarci improvvisi da cui emergono affetti che solo la poesia può gestire, una scrittura agile ma dai colpi duri da medio massimo della scrittura.

(Questo articolo l’ho pubblicato sulla mia libreria di anobii ad agosto lo ripropongo qui per comodità di archiviazione)

Stabat Mater di T. Scarpa

Scarpa con questo libro prova a fare una cosa difficilissima, prova a fare musica utilizzando la prosa. La partenza non può che essere in una posizione di svantaggio, il risultato non può che essere mancante di qualcosa. Nello stereo continua a suonare il cd con le Quattro stagioni , La Tempesta del mare e L’estro armonico di Vivaldi, ho appena finito di leggere Stabat Mater. Si apre il ibro, si comincia a leggere e si è già nel pieno della storia, non c’è introduzione, niente preparazione e le parole di Cecilia hanno magnetismo e bisogna ascoltare e sintonizzarsi, poi si procede insieme alla sua voce. E la bellezza dei passaggi fra i piani emotivi non tarda a manifestarsi. Per me è stato così. Ci sono momenti molto belli, intensi da sentirserli risuonare dentro il suono delle domande e il senso della solitudine di Cecilia. Ci sono momenti in cui gli anacronismi (ammessi da Tiziano Scarpa nella nota a fine libro) sia di linguaggio che storici suonano stonati e, pur sostenendo la scrittura e la narrazione, creano delle crepe fastidiose. Come Cecilia anche Scarpa stona consapevolmente, stona perché sa di saperlo e poterlo fare e le parole si srotolano in un continuum creato con delicatezza e potenza e allora tant’è si continua a leggere, però… Da circa metà libro in poi ho letto ascoltando la musica di Vivaldi (la versione di Europa Galante, molte altre con ‘autori e interpreti che hanno preso sul serio la musica vivaldiana’ le consiglia l’autore nella nota) a volume piuttosto sostenuto e, anche se non è necessario al fine di gustarsi la storia, è stato un modo per afferrare e mantenere il ritmo della scrittura. C’è un momento in cui Scarpa, attraverso Cecilia, parla di linguaggio, significato, relazioni fra note e fra note e parole: accordi. Stabat Mater è fatto di accordi da scoprire, a volte stonati a volte armonici ed è in se un bel omaggio musicale, suonato da Scarpa con un pizzico di necessaria serietà, al proprio compositore preferito. Applausi. Resta l’impressione che qualcosa non si sia potuta fare. Silenzio.